Donald Trump è riuscito nell’impresa forse più ardua dal giorno del suo insediamento alla Casa Bianca. Era stato uno dei suoi più importanti cavalli di battaglia in campagna elettorale, il piano di riforma fiscale.
Il Senato ha approvato la maxi riforma fiscale targata Trump
Si tratta del più grande taglio alle imposte effettuato da un’amministrazione presidenziale dai tempi di Ronald Reagan. Con non poca fatica il Senato degli Stati Uniti d’America ha approvato il piano alla fine della scorsa settimana. Alla fine l’aliquota fiscale scenderà dal 35 al 20% e non al 15% come era stato promesso dal Presidente Trump. Un compromesso necessario e accettabile per far passare un testo di legge di oltre 500 pagine. Oltre all’abbassamento considerevole dell’aliquota i repubblicani sono riusciti anche a introdurre un emendamento che elimina l’obbligo di sottoscrivere una polizza sanitaria, come previsto dall’Obamacare.
Una sorta di rivincita rispetto alla volontà, respinta proprio in Senato, di smantellare tutta la struttura legislativa sulla sanità voluta dall’ex Presidente Barack Obama. La riforma è apprezzatissima dalla classe imprenditoriale americana, piccola, media e grande. Ed è proprio su di loro che la nuova presidenza fa affidamento per il rilancio dell’economia.
L’aumento del deficit e del debito è davvero un pericolo?
Secondo i repubblicani infatti il taglio delle tasse lascerà nelle tasche di imprenditori dollari che potranno così essere reinvestiti nell’economia. Consumi, occupazione e crescita dei salari sono gli effetti previsti da questa grande riforma. Se la classe imprenditoriale applaude, c’è chi d’altra parte storce invece il naso. A preoccupare media, economisti e stranamente anche il partito democratico, sarà il deficit che si verrà a creare con l’attuazione dei tagli. Una riduzione delle tasse implica infatti minori entrate nelle casse dello Stato. In totale la somma che verrà a mancare al Tesoro americano sarà di 1400 miliardi di dollari.
Una cifra che andrà ad aumentare sia il deficit, ovvero la differenza tra le entrate e le uscite nelle casse dello Stato, sia il debito pubblico. Secondo le stime questo potrebbe aumentare per una cifra che va dai 516 miliardi di dollari (previsione ottimistica) fino a 1,39 trilioni di dollari (previsione catastrofica). In un Paese come gli Stati Uniti, però, il deficit statale è un problema assolutamente irrilevante. Anzi è un non problema.
Washington non ha parametri da rispettare e non ha da rendere conto a nessuno circa la propria spesa di Stato. Così il deficit, ovvero ciò cha “manca” nelle casse statali, rappresenta la cifra guadagnata dai cittadini, che va quindi a creare occupazione, salari e consumi. Anche sul fronte debito pubblico l’allarme non dovrebbe preoccupare più di tanto l’amministrazione di Donald Trump. La possibilità di un’esplosione debitoria è piuttosto remota, contando anche l’attuale ottima posizione degli Stati Uniti rispetto ai creditori internazionali. “AA+” “Aaa” e “AAA” sono i rispettivi giudizi dati dalle principali agenzie di rating internazionali (S&P, Moody’s e Fitch) alla solvibilità del debito pubblico americano. Situazione solidissima quindi.
Gli Stati Uniti rischiano di essere sommersi dalle esportazioni cinesi?
L’altro allarme è invece, secondo la CNBC, portato dall’estero. Se la riduzione delle tasse porterà un aumento dei consumi, la stessa potrebbe portare a un conseguente aumento delle importazioni. L’aumento del potere d’acquisto del cittadino americano, secondo l’emittente finanziaria, potrebbe non essere seguito da un altrettanto aumento di produzione interna e quindi spostarsi sul consumo di beni importati. Il che sarebbe un grande beneficio per Germania e Cina, quei Paesi che proprio Donald Trump ha dichiarato essere minacciosi per l’economia americana. Secondo l’editoriale della CNBC sarebbe stato dunque meglio stimolare le esportazioni. Tuttavia ci sono alcuni appunti da fare a quest’analisi. Innanzitutto non viene presa in considerazione la parallela campagna presidenziale contro il dumping cinese e le esportazioni tedesche.
La recente visita di Donald Trump in Cina ha infatti introdotto una nuova politica economica bilaterale volta a ridurre la pressione dei prodotti cinesi nel mercato interno americano. Discorso analogo è stato fatto per la Germania. Oltre alla riduzione delle tasse, Trump vuole aumentare la produzione interna dando così un’impronta nazionale all’economia americana. D’altra parte non è poi nemmeno così vero e scontato che un’economia basata sulle esportazioni sia in “salute”. Un Paese che esporta oltre la metà della propria economia reale, come la Germania, è un Paese che automaticamente toglie i beni esportati dalla disponibilità dei cittadini in cambio di moneta. L’unico modo che uno Stato ha per limitare l’acquisto di beni da parte dei cittadini è quello di tenere gli stipendi su livelli bassi, come appunto fa la Germania.
Dunque un’economia basata sulle esportazioni si regge logicamente su un basso livello di consumi interni. L’esatto contrario di ciò che sta avvendendo negli Stati Uniti, che non a caso detengono il primato tra i Paesi che importano di più al mondo. La riforma fiscale è il primo grande successo della presidenza Trump e i suoi detrattori sembrano aver patito il colpo.