A un anno esatto dalle elezioni che ne hanno confermato il ruolo di presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa si trova a dover affrontare una moltitudine di sfide. Il Paese si trova infatti in una situazione drammatica, che non presenta grandi miglioramenti rispetto agli anni del regime di Robert Mugabe. Dall’inflazione alla disoccupazione, passando per le catastrofi naturali e le proteste per il rincaro dei prezzi deciso dal governo, i problemi restano finora molti più delle soluzioni proposte dal nuovo leader per risolverli, molte delle quali sembrano essere più tentativi messi in atto con poca convinzione che veri e propri piani di salvezza.

Le lacrime del Coccodrillo

Nato nel 1942 a Lusaka, nell’odierno Zambia, Emmerson Mnangagwa è stato sempre un personaggio chiave nella politica zimbabwese, sin dai tempi precedenti all’indipendenza: in qualità di avvocato personale e guardia del corpo di Robert Mugabe, fu presente a Londra durante la firma dell’accordo di Lancaster House, che nel 1979 sancì la fine della Rhodesia. La sua vicinanza al leader lo ha condotto negli anni a rivestire una moltitudine di prestigiosi incarichi, tra cui quelli di vicepresidente, ministro della Giustizia, Speaker del Parlamento e ministro della Difesa. Sino a due anni fa, era inoltre considerato il candidato più plausibile per la successione alla presidenza: Mnangagwa non aveva però fatto i conti con la potente moglie di quest’ultimo, Grace Mugabe, proclamata nuova vicepresidente il 6 novembre 2017. Fu proprio quest’ultimo atto dell’anziano capo a provocarne la caduta, causando un colpo di stato delle forze armate e la nomina a presidente del Coccodrillo (“Garwe” in lingua shona), il soprannome -dovuto apparentemente alla sua estrema scaltrezza politica- con cui Mnangagwa è noto sin dagli anni Ottanta in tutto lo Zimbabwe. Neppure un tentativo fallito di assassinio e le elezioni presidenziali del luglio 2018, aspramente contestate dal candidato rivale dell’Mdc Nelson Chamisa (sconfitto con un margine di soli sei punti) sono riuscite finora a fermare il nuovo leader, che tuttavia non ha saputo finora dimostrarsi all’altezza del compito assegnatogli: risollevare un Paese in crisi profonda, dilaniato dall’iperinflazione e dalla disoccupazione.

Ancora più poveri

Nel mese di luglio 2019, l’inflazione dello Zimbabwe ha raggiunto un tasso del 175%: una percentuale elevatissima, la peggiore dal 2008, che non accenna ad arrestarsi e ha portato la Banca Mondiale a predire una decrescita economica del 3% da qui a fine anno, la peggiore in tutta l’Africa meridionale. Le difficoltà non si fermano qui: le importazioni di energia elettrica dall’estero sono tutt’altro che garantite, e il Paese -anche a causa della siccità e degli impianti obsoleti- sperimenta quotidianamente blackout (che possono arrivare a durare diciotto ore) e tagli dei turni nelle fabbriche. Anche per quest’ultima ragione, il tasso di disoccupazione è elevatissimo, secondo alcuni oltre il 90%, anche se la percentuale esatta oscilla a seconda delle fonti che la riportano (come ha tentato di ricostruire la Bbc in un suo articolo del 2017). Inoltre, catastrofi naturali come il ciclone Idai, abbattutosi su Mozambico e Zimbabwe lo scorso marzo, hanno ridotto le coltivazioni all’osso e reso il cibo ancora più un lusso per gli abitanti del posto: la maggior parte degli zimbabwesi deve infatti accontentarsi di un magro pasto al giorno. Le misure di austerity intraprese dal governo non hanno però sortito gli effetti sperati, come esemplificato dall’aumento del 130% sul prezzo del carburante dello scorso gennaio, aspramente contestato dalla popolazione locale, e dalla controversa decisione di rivoluzionare la circolazione di valuta all’interno del Paese.

Da una moneta all’altra

I guai economici dello Zimbabwe passano infatti anche attraverso la confusa situazione a livello monetario: già nel 2009, il governo aveva optato per l’abbandono del dollaro zimbabwese in favore dell’utilizzo di valute straniere come il dollaro statunitense, il rand sudafricano, la sterlina e il pula del Botswana, allo scopo di limitare gli effetti dell’iperinflazione. Nel 2016, a causa della carenza di banconote in circolazione, furono introdotte le cosiddette “bond notes” o note obbligazionarie, una specie di mini titoli di stato il cui valore era equiparato a quello del dollaro Usa, e il Real Time Gross Settlement (o Rtgs), un metodo di pagamento elettronico solo successivamente convertibile in denaro stampato. Entrambi i tentativi si sono nel tempo rivelati infruttuosi, se non addirittura fallimentari: le valute straniere, sempre più rare, hanno finito per bloccare ancora di più l’economia locale, mentre le bond notes, non accettate da gran parte della popolazione, sono confluite assieme alle “bond coins” (il loro equivalente sotto forma di moneta) e al Rtgs in una nuova versione del dollaro zimbabwese, nota come dollaro Rtgs. Secondo John Mangudya, governatore della Banca centrale dello Zimbabwe, la misura è stata adottata per proteggere gli investimenti da e per l’estero, bloccando l’artificiale e forzata parità con il dollaro in favore di un sistema più fluttuante. Per la stessa ragione, lo scorso giugno le attività di Harare hanno annunciato che le valute straniere non verranno più accettate: una decisione quantomeno rischiosa, dato che l’estremamente precaria situazione economica del Paese rende molto più sicuro continuare ad adottare denaro estero, e una possibile spinta in avanti per il mercato nero, che in questo modo rischia di rafforzarsi non poco. Un paradosso alimentato ancora di più dal fatto che, nonostante gli stipendi vengano ufficialmente erogati in dollaro Rtgs, il valore di questi ultimi viene ancora scritto in dollari Usa.

La Cina non resta sullo sfondo

Dopo aver fatto i conti con tali premesse, giunge tutt’altro che inaspettata la notizia dell’appello fatto da Mnangagwa al Paese che più di tutti sta volgendo lo sguardo all’Africa negli ultimi anni: la Cina. Il presidente avrebbe infatti invitato gli investitori orientali a contribuire allo sviluppo dell’industria locale, particolarmente nel settore turistico e nella zona delle cascate Vittoria. La richiesta giunge poche settimane dopo la visita a Pechino del ministro dell’Economia Mthuli Ncube, l’ultimo di numerosi tentativi per ottenere aiuti economici da parte dello Stato africano. Dopo il Sudafrica, per anni quasi il solo partner commerciale dello Zimbabwe, anche la Cina resta dunque diffidente davanti all’inaffidabilità economica di Harare, ma non del tutto: sono infatti numerosi i progetti intrapresi negli ultimi anni con la partecipazione di capitali cinesi, come l’aeroporto internazionale della capitale e quello per modernizzare la centrale elettrica di Hwange. E i legami non si fermano qui: lo scorso 22 luglio il vice di Mnangagwa, il 62enne Constantino Chiwenga, è stato trasportato urgentemente in Cina per ricevere cure mediche, in seguito all’insorgere di un malore non meglio specificato. Lo stesso Chiwenga è stato peraltro per molto tempo al centro di speculazioni che lo avrebbero visto in contatto con il governo cinese sin dai giorni precedenti al golpe che nel 2017 rovesciò Mugabe, tutte smentite da Pechino: è però appurato come Chiwenga, egli stesso ex ufficiale dell’esercito, in quei giorni si trovasse effettivamente a colloquio con alti ufficiali delle forze armate cinesi.

Con un quadro simile davanti, non c’è da sorprendersi se la caduta di Robert Mugabe, al potere per 37 anni, non è riuscita ad arrestare la caduta libera dello Zimbabwe. I problemi strutturali del Paese rimangono troppi per potersi augurare una loro risoluzione rapida e felice. Tuttavia, l’indecisione e la debolezza delle scelte di Mnangagwa fanno pensare che neppure lo stesso governo abbia un’idea chiara e precisa di che cosa fare per riportare sui binari giusti un’economia in collasso. Una cosa è certa: finché gli esperimenti e le decisioni prese “a tentoni” proseguiranno, è altamente improbabile che lo Zimbabwe possa risorgere sulle proprie ceneri.

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