Una faglia che va dal Mar Baltico al Mediterraneo e che divide l’Europa a metà. Come ai tempi della Guerra Fredda, che forse non è mai finita. E forse ora dovremmo semplicemente iniziare a prenderne atto. Pur con tutti i distinguo del caso.

Il caso dell’ufficiale italiano che vendeva documenti a un agente russo in servizio presso l’ambasciata a Roma è l’ultimo di una lunga serie di episodi che confermano che non è solo presente la cosiddetta “guerra delle spie”, ma anche che è in atto un confronto durissimo sulla politica europea. La polarizzazione tra superpotenze si fa sempre più forte. E del resto la presidenza di Joe Biden è iniziata con l’accusa di “assassino” rivolta a Vladimir Putin e un incontro con i cinesi in Alaska finito in uno scontro verbale. Questo comporta che, i Paesi che hanno sempre mantenuto un profilo basso, ambiguo o fondamentalmente poco propenso a legarsi in tutto a una visione unipolare si trovino a dover fare i conti con un nuovo meccanismo strategico. Il grigio, quella grande area in cui sono coinvolti Paesi come l’Italia, la Grecia, la Germania, l’Austria, gli scandinavi o anche alcuni Stati nordafricani, rischia di colorarsi sempre più di bianco o di nero. E questo comporta scelte. Decisioni difficili in cui sono necessari anche gesti plateali di arresti, espulsioni e condanne pubbliche.

Questo non significa scagionare le azioni di chi vende o trafuga dati sensibili. La Russia, provocando questo genere di azioni, colpisce inevitabilmente gli interessi strategici di un Paese. E questo non è ovviamente considerato accettabile in un sistema internazionale che si prefigura retto da regole di onore, prima ancora che giuridiche. Stesso discorso vale per il singolo che cede alle lusinghe esterne: perché la cessione di dati c’è stata e su questo non si può mai transigere.

Dal caso particolare al caso generale bisogna però fare delle osservazioni di natura politica. Chiunque conosce il meccanismo in cui si muovono le intelligence di tutto il mondo sa perfettamente che le modalità sono fisiologicamente oscure e poco propense alla ribalta dei media. Le cose che si conoscono sono poche, frastagliate e non per forza reali. Esiste un livello di inaccessibilità che tale rimane e che forse deve rimanere.

C’è però, oltre a questo livello di sicurezza, un livello politico. Perché se il caso viene messo in luce in un determinato modo e in un determinato Paese implica reazioni ed effetti di natura diplomatica molto particolari. Non è un caso che le azioni più recenti nel campo della diatriba tra Russia e Stati Uniti stiano avvenendo tutte lungo una faglia di Paesi che notoriamente sono stati al centro di scontri politici e strategici che riguardano le sfere di Mosca e Washington.

In questi ultimi mesi, Italia e Germania sono per esempio state il teatro di due arresti (l’ultimo quello del capitano di fregata italiano, l’altro di un dipendente del Parlamento tedesco) che hanno dimostrato l’esistenza di un “problema russo”. E non è certo un caso, se si pensa ai rapporti che Berlino e Roma hanno con Mosca. La prima coinvolta nel raddoppio del Nord Stream per portare il gas in Europa. La seconda da sempre altalenante per evitare di rimanere ancorata ai soli vincoli americani. Le due capitali europee sono al centro di traffici che risalgono ai tempi della Guerra Fredda e che continuano a imperversare come se fossimo negli Anni Settanta del secolo scorso. Ma sono soprattutto capitali che mostrano, per Washington, l’incapacità di decidere da che parte stare. Mai troppo filo-Usa né troppo anti-Russia, Italia e Germania sono sulla linea di confine di due sfere di influenza in cui è coinvolta anche la penetrazione cinese. Un discorso che vale anche per la Grecia, che nonostante i solidi rapporti con la Russia ha dovuto espellere anni fa alcuni diplomatici di Mosca accusati di aver commesso azioni di spionaggio ad Atene. Vale per l’Austria, Paese che si trova sempre al confine di questa linea di faglia, è interessata da questioni di intelligence legate ai rapporti con la Russia. E in questi giorni ha coinvolto anche la Bulgaria. Dove è stato possibile, sono stati scoperte queste reti delle agenzie russe. E questo indica due cose: c’è desiderio da parte di Mosca di conoscere in modo approfondito le dinamiche dei Paesi di questa faglia; c’ dall’atra parte il desiderio di Washington di rompere questo gioco scoperchiando però piccoli vasi di Pandora che costringono i governi a prendere posizione contro il Cremlino.

Questo gioco di sfida riguarda anche l’area mediterranea. Lo ha spiegato Marco Minniti a ilGiornale intervistato da Gian Micalessin, esiste tutta un’area del Mare Nostrum molto attenzionata dai russi, che da sempre considerano questa regione un obiettivo della propria sfera di azione. E questo chiaramente implica uno scontro con gli Stati Uniti, che, come avviene per l’Europa occidentale e centrale, affermano la propria presenza cercando di frenare la spinta di Mosca e quella di Pechino. La realtà che osserviamo nello stesso mare in cui è incastonata l’Italia è composta da una serie di Paesi che sono inclusi in questo confine tra sfere di influenza. Dall’Algeria, che è saldamente legato ad accordi militari con la Russia, passando per la Libia, l’Egitto e la Siria fino alla Turchia, esiste un arco mediterraneo che è costantemente sotto pressione da questo scontro tra superpotenze. Un limes in cui rientra inevitabilmente il gioco delle spie, che rappresenta, quando scoperto, il messaggio che si vuole rivolgere al governo interessato, oltre che alla potenza coinvolta nella vicenda. Il timore di Washington di perdere quest’area, l’interesse russo a non perdere i suoi avamposti e il desiderio della Cina di entrare pesantemente in partita si incontrano nell’area euro-mediterranea. E la trasformano in una lunga trincea dall’Artico fino al Sahel.

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