Boris Johnson è stato in assoluto il leader più convintamente ostile alla Russia in seno al G7 e alle maggiori potenze della Nato nei primi quattro mesi e mezzo di guerra in Ucraina. Molto più degli Usa la Gran Bretagna ha cercato e voluto la strategia della guerra per procura, armato Kiev, sostenuto politicamente Volodymyr Zelensky, attivato i più duri falchi antirussi come Polonia e Paesi baltici, tracciato una linea di confronto a tutto campo. BoJo si è rivisto in Winston Churchill e nella sua crociata contro Hitler del 1940-1945, ma il suo governo si è incagliato dopo pochi mesi. E la questione più importante è legata, ora, al fatto che in futuro la durezza del confronto tra Londra e Mosca e, in generale, l’occidentalismo britannico potrebbero anche ampliarsi.

Se a Mosca, infatti, nella rosa dei rivali del Regno Unito aggiungiamo anche la Cina, si può sottolineare che tutti i principali papabili alla carica di primo ministro per il dopo-Johnson in seno al Partito Conservatore si caratterizzano per una politica estera decisamente assertiva. In primo luogo perché su di loro non ci sono nemmeno le più lontante ombre politiche di sospetto aleggianti su Johnson, accusato per aver ricevuto nel Partito Conservatore finanziamenti (peraltro mai illegittimi) riconducibili a fondi russi e desideroso, all’inizio del suo governo, di avere un approccio fondato sul dialogo, il commercio e le buone relazioni diplomatiche nei confronti della Cina. Tanto da avere un duro braccio di ferro con Donald Trump a inizio 2020, fondato sul dossier 5G, con il Regno Unito che ha in seguito escluso Pechino solo a malincuore.

La virata di Johnson seguita alla rotta afghana del 2021 ha dato, in tal senso, più potere agli occidentalisti più spinti. Creando una sorta di diplomazia a doppio binario, in cui da un lato BoJo elaborava la grande strategia, immaginava il futuro della Global Britain e delle alleanze internazionali del Regno, arrivando a pensare addirittura il sogno del “Nuovo Impero Romano” al recente G7 tedesco e dall’altro i ministri più impegnati sui dossier strategici trasformavano questa visione in realtà mediandola con le tradizionali coordinate della politica di Londra. E così Liz Truss, promossa a settembre 2021 ministro degli Esteri, ha costruito una politica internazionale apertamente anti-russa e anti-cinese. Arrivando a proporre di recente una missione militare per forzare il Mar Nero e permettere l’uscita del grano ucraino dai porti. La Truss, facendo sponda con figure di peso del mondo Tory come l’ex Capo dell’Ufficio di Gabinetto Michael Gove e Iain Duncan Smith, parlamentare dal 1992 ed ex leader dei Conservatori dal 2001 al 2003, ha messo in campo una strategia anticinese che ha portato Johnson a sposare ovunque il contenimento di Pechino, dal 5G al nucleare, dalla partita di Hong Kong all’Indo-Pacifico.

Ben Wallace, ministro della Difesa, è stato invece il fautore del riarmo di Kiev. E ha gestito con discrezione ma in maniera inesorabile il dossier. Andando oltre lo stesso Johnson nell’indicare nella vittoria di Kiev un obiettivo fondamentale. Wallace è stato indicato, con Truss, nella rosa dei candidati per il dopo-Johnson. Con loro sono stati dati in buone posizioni, tra gli elettori in particolare, Penny Mordaunt, che Ministro della Difesa lo è stata, fino al 2019, aumentando le spese militari in direzione dell’obiettivo del 2% del Pil, e il falco anti-cinese Tom Tugendhat, sulla cui testa pendono le sanzioni decise dal governo di Pechino. Wallace, però, ha deciso di fermarsi un giro: l’assenza di una base consistente nel gruppo parlamentare, decisiva nella prima fase della selezione, lo ha convinto a desistere.

Tra i papabili alla successione Rishi Sunakconservatore tradizionale vestito di panni johnsoniani nell’ultimo triennio, da buon liberista vicino alla City teme la sfida lanciata da Cina e Russia all’ordine occidentale. Tutti i principali contendenti per il post-Johnson sono dunque a pieno regime dei sostenitori dell’Occidente e di un destino manifesto di ampliamento delle prospettive strategiche del Regno Unito. Tra diplomazia, mondo militare ed economia plasmano una nuova ortodossia per il post-Brexit che vede Londra sempre più atlantica e capace di definirsi in antitesi ai suoi dichiarati avversari. Johnson, pur non sposandolo fino in fondo, ha cavalcato questo trend del partito per fini politici e personali, immedesimandosi inoltre genuinamente nella sfida a Putin. Come premier ha chiaramente preferito i grandi progetti, come la Global Britain, come eredità da lasciare ai posteri. Facendo sì che l’agenda concreta del governo, in termini di politica estera, venisse gradualmente corretta dalle occasioni verso l’ortodossia occidentalista. I cui portavoce si daranno ora battaglia per consolidarla al governo in una fase in cui Londra è la prima alleata di Washington per contenere le potenze revisioniste.