Dopo quattro anni e mezzo di discussioni, dopo il cambio di governo a Downing Street (da Theresa May a Boris Johnson), l’insediamento della nuova Commissione a Bruxelles guidata da Ursula von der Leyen, il voto britannico del 2019 risoltosi in un trionfo dei Conservatori e la pandemia di Covid-19, a fine dicembre 2020 la Brexit è diventata realtà con l’accordo di uscita di Londra dall’Unione Europea. A un anno di distanza, la Brexit non è stata sicuramente l’Apocalisse che i suoi più acuti critici temevano potesse diventare, ma al tempo stesso le sfide aperte per Londra sono tutt’altro che secondarie.
La realtà dei fatti però al tempo stesso il Regno Unito difficilmente in grado di separarsi dal destino del resto dell’Europa anche in caso di uscita dall’Unione Europea: Londra, che ha ideato la strategia “Global Britain”, è oggi incardinata come “punta di lancia” statunitense e primo alleato, e al tempo stesso primo satellite, della superpotenza a stelle. Uscendo dall’Ue il Regno Unito ha comunque dovuto rendersi conto della valenza dei rapporti di forza che concorrenti e (soprattutto) alleati possono sempre esercitare. Anche nel nuovo bipolarismo l’Europa, Gran Bretagna inclusa, sarà una terra di aperto scontro e non sarà la Brexit a cambiare, sul lungo periodo, questi scenari. Ma le varie partite vanno valutate a livello di sistema.
Vaccini e ripresa: l’autonomia di Londra
I primi mesi hanno segnato una relativa capacità del Regno Unito di avvantaggiarsi sull’Unione Europea quando nel mondo è partita la campagna vaccinale contro il Covid-19. Mentre l’Unione Europea andava incontro all’iniziale caos di forniture delle dosi e le principali ditte produttrici, come Pfizer-BioNtech, puntavano su governi come quello americano, israeliano e britannico, Londra valorizzava la sua strategia di acquisto autonomo di dosi accelerando la campagna di immunizzazione. Affari Internazionali ha ricordato che “la Brexit ha dato al Paese libertà di azione per muoversi in maniera autonoma” anche nelle ultime settimane di appartenenza del Regno Unito al mercato unico. Infatti “Londra prima ha deciso di non partecipare al programma comune di approvvigionamento dei vaccini messo a punto da Bruxelles” su cui ha impattato la scure dei tagli alle forniture e ha potuto avvantaggiarsi della firma di accordi anticipati con condizioni favorevoli.
La ripresa economica britannica nel 2021 è stata, anche per le ragioni dettate dalla rapida campagna vaccinale e dalla ripresa di posti di lavoro, consumi e produzione, la più energica tra le economie del G7 e ai vertici della classifica stilata dall’Ocse: l’organizzazione, nota Bloomberg, a dicembre ha ritoccato da +6,7 a +6,9% le previsioni di crescita di Londra per il 2021; e anche se per il 2022 si prevede un calo della ripresa dal 5,2 al 4,9% del Pil, il Regno Unito riuscirà a riassorbire prima degli altri Paesi ad economia avanzata dell’Occidente i danni della recessione da Covid-19. L’inflazione, al 4,9%, resta un problema trasversale a tutte le maggiori economie del pianeta e legato al contesto finanziario: la Brexit non sembra, su questo fronte, aver influito totalmente. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, invece, a dicembre 2021 il tasso di occupazione nella fascia 16-65 anni era pari al 75,5%, in via di avvicinamento al trend interrotto nel febbraio 2020, allo scoppio della pandemia, quando il tasso era al 76,6%.
La geopolitica sempre più atlantica di Londra
Come anticipato, un altro punto chiave della strategia post-Brexit di Londra è stato il completo allineamento atlantico della politica estera di quella che è stata definita la “Global Britain”. Conclusi accordi commerciali di libero scambio con Australia e Nuova Zelanda, avviate le trattative per analoghe partnership con i Paesi del Sud-Est asiatico e gli Usa, Londra ha pensato in grande sul fronte del potenziamento strategico e della proiezione geopolitica pubblicando un “prontuario” operativo sul futuro della Global Britain. Dal rafforzamento della proiezione della Royal Navy al contrasto alla Cina, dal rilancio dell’industria militare alla ricerca di autonomia in campo tecnologico, il documento contiene piani ambiziosi.
Nella realtà dei fatti, ad ora il maggior risultato ottenuto è stato un consolidamento geopolitico dell’Anglosfera con l’accordo Aukus che vincola in un cerchio ancora più stretto di alleanza militare Regno Unito, Usa e Australia, già perno assieme a Canada e Nuova Zelanda dell’alleanza dell’intelligence, i Five Eyes.
L’atlantismo spinto, del resto, frenerà un obiettivo di massima del governo Johnson: quello di rendere Londra una vera e propria Singapore sul Tamigi, una “nave corsara” della finanza capace di costruirsi come polo economico globale autonomo a colpi di attrazione di imprese, deregulation, centralizzazione di asset e investimenti sulla City sdoganata nel suo potenziale globale. Johnson nel suo primo anno da premier aveva mantenuto, su temi come i legami commerciali e lo sviluppo di tecnologie strategiche come il 5G, una strategia disinvolta accostando al mantenimento della solidarietà atlantica lo sdoganamento di rapporti sempre più stretti con Paesi come la Cina sul piano economico e politico. La retorica anti-cinese e anti-russa è invece oggi dominante dalle parti di Downing Street, richiamata pesantemente all’ordine da Washington sia nell’era Trump che in quella Biden.
Indubbiamente, questo rappresenta un doppio scacco: da un lato, perché segnala la fallacia di una strategia per il dopo-Brexit eccessivamente focalizzata su un’ideologia economicista non certamente dissimile dall’ortodossia ordoliberale che caratterizzava l’Unione Europea prima della pandemia e da cui Londra ha preteso di ritrovare la “libertà”. Dall’altro, impone un ridimensionamento delle prospettive di affari con i nuovi rivali strategici. A cavallo tra 2019 e 2020 gli investitori cinesi si sono mossi con disinvoltura nella City, acquistando marchi storici come British Steel e Greene King e puntando a inserirsi nel grande affare del rilancio infrastrutturale e ferroviario del Paese. Ora, la competizione politica renderà più difficile stipulare nuovi legami di questo tipo.
Le questioni aperte
Diversi scenari restano invece ancora maggiormente in bilico per capire in che direzione Brexit spingerà il Regno Unito.
Il primo tema riguarda il commercio, che si è ristretto di fronte alle incertezze che i mercati di Regno Unito e Ue hanno mostrato nell’adattamento alle nuove regole decise nel dicembre 2020. Secondo il think tank Centr for European Reform si prevede un calo del volume complessivo dei commerci britannici con l’Europa tra l’11 e il 16% per il 2021. L’effetto-Brexit è stato sino ad ora mitigato dal periodo di grazia (grace period) concordato tra Unione Europea e Regno Unito che, per l’intero 2021, ha esonerato gli esportatori britannici dalle pratiche burocratiche relative alla certificazione dell’origine locale delle merci. Dal 2022, questo onere ulteriore si farà probabilmente sentire.
La Borsa di Londra rimarrà ancora piazza finanziaria globale e, nota Affari & Finanza, “nel 2021 l’indice Ftse100 ha fatto segnare il suo miglior anno dal referendum sulla Brexit, crescendo del 14%”. Ciononostante, “nel secondo trimestre i servizi finanziari esportati dal Regno Unito verso l’Unione Europea” sono “calati del 31% rispetto al 2019”, in aggiunta a asset stanziati in Gran Bretagna dal valore di 1.500 miliardi di euro che si sono spostati oltre la Manica.
La “bomba irlandese” sulla Brexit
La questione irlandese è, sul fronte politico di breve e medio periodo, la più impellente. Lo spostamento nel tratto marittimo tra Gran Bretagna e Irlanda del confine doganale tra Regno Unito e Ue e il mantenimento delle sei contee dell’Irlanda del Nord nel mercato unico ha spinto una convergenza economica tra le due parti dell’isola celtica divisa. Tra gennaio e settembre 2021, nel periodo in cui finora i dati sono disponibili in forma certa, l‘Irlanda del Nord ha rappresentato la terra di destinazione di circa il 20% dell’export della Repubblica d’Irlanda in direzione Regno Unito e quella di origine del 24% dell’import. Per fare un paragone, tale media nel triennio 2018-2020 si è assetata rispettivamente al 16 e all’11%.
Dopo aver criticato nell’era May, sia prima che dopo l’addio alla carica di ministro degli Esteri, l’accordo in via di discussione con l’Ue Johnson ha infine concluso un accordo molto simile a quello dell’ex leader conservatore per quel che riguarda le nuove regole commerciali applicate all’Irlanda del Nord. Regole che attaccò duramente nel 2018 parlando al congresso degli ex alleati del Democratic Unionists Party (DUP), la formazione unionista dell’Ulster. Il Northern Ireland Protocol, infatti, prevede che merci e persone possano continuare a fluire liberamente tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord ma anche che parte dei controlli e della burocrazia che Bruxelles applica ai traffici con i Paesi extra Ue ora avvengano alla frontiera tra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. Paese che si ritrova dunque ad avere un’antistorica dogana interna. Quale sarebbe, del resto l’alternativa? Giocare col fuoco del ritorno al confine fisico tra le due Irlande e ritrovarsi la “bomba” delle proteste nuovamente pronta a esplodere? Rischiare di perdere la faccia ammettendo la complessità di un accordo conclusosi su questo punto con un compromesso al ribasso? O aspettare che si scateni il caos? Le prossime elezioni in Irlanda del Nord, che vedono la sinistra sovranista e autonomista del Sinn Fein in predicato di uno storico sorpasso sul Dup, saranno il primo di molti referendum sulla Brexit. Un processo complesso, su cui il giudizio è ancora da scrivere. Ma che a BoJo e i suoi impone di giocare con astuzia e capacità politica.