In Ucraina si sta consumando un nuovo capitolo di quella che papa Francesco aveva ribattezzato la “terza guerra mondiale a pezzi” nel 2014. Per i giornalisti è la guerra fredda 2.0, mentre per gli addetti ai lavori è la competizione tra grandi potenze, ma la sostanza è una e identica in ognuno dei tre casi: nel mondo, da diversi anni, si sta combattendo per la transizione multipolare.

Da una parte si trova l’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, che nel dopo-guerra fredda ha tentato di prolungare il più possibile il “momento unipolare” e di trasporre in realtà l’affascinante tesi di Francis Fukuyama della Fine della storia: il modello politico, sociale, economico e valoriale della civiltà occidentale come capolinea universale di ogni popolo e nazione. La globalizzazione come mezzo, l’occidentalizzazione come fine.

Dall’altra parte si trova l’Oriente, trainato da Russia e Cina, due amici/nemici forzati dalla storia a diventare migliori amici, che ha intravisto nella pioggia di avvenimenti traumatici che ha contraddistinto il momento unipolare – dalla brutale esecuzione di Saddam Hussein alla detronizzazione altrettanto violenta di Muammar Gheddafi – una mera anticipazione di ciò che sarebbe potuto accadere qualora l’unipolarismo, e dunque la Pax americana, avesse trionfato.

L’arrivo ad uno scontro frontale, al redde rationem, non era che un’inevitabile questione di tempo. La competizione tra i blocchi era andata aggravandosi con l’entrata dell’umanità negli anni Venti, facendo ingresso in uno stadio altamente destabilizzante, quello delle periferie al centro, contraddistinto da una peculiarità: le ritorsioni simmetriche. Un colpo americano nell’Indo-Pacifico seguito da una mossa sino-russa nell’Atlantico. Un’operazione di disturbo occidentale in Asia centrale succeduta da un’azione sino-russa in Latinoamerica. Impensabile, persino impossibile, fino all’inizio del secolo.

La competizione tra grandi potenze ha assunto una dimensione crescentemente ideologica, quasi escatologica, con lo scorrere degli anni, delle rivoluzioni, delle guerre per procura e dei cambi di regime. Se ieri era una battaglia tra unipolaristi e multipolaristi, oggi è un confronto tra il mito sempiterno del Mondo libero (e i valori che lo definiscono) e i suoi nemici, vecchi e nuovi Imperi del male dalle aspirazioni totalitarie. Democrazie contro autocrazie. Progressismo contro conservatorismo. Apertura contro chiusura.

Scrivere dell’Ucraina assume ulteriore rilevanza alla luce della natura teologica della competizione tra grandi potenze. Perché questa terra contesa, spesso e volentieri descritta in termini di trincea lungo la quale si sta consumando l’ultimo sanguinoso regolamento di conti tra democrazie e autocrazie, ha una vetrina tanto lucida quanto una bottega piena di punti oscuri. E parlare di guerra in Ucraina come di conflitto tra il bene e il male, tra democrazia e autoritarismo, non ha alcun senso alla luce dei fatti.

Democrazia contro dittatura, una contrapposizione fallace

Nelle ultime settimane si è descritto il conflitto in Ucraina come una sorta di scontro metafisico fra autoritarismo e democrazia. Questa narrazione, tuttavia, è alquanto imprecisa perché l’Ucraina non è una democrazia liberale di stampo occidentale ma una democrazia illiberale, a tratti persino autoritaria, tipica dello spazio postsovietico.

È solo a partire dall’accettazione di questa verità (abbastanza) scomoda, e cioè che l’Ucraina non è una liberal-democrazia fatta e compiuta e non è meno autoritaria e problematica di altre realtà postsovietiche, che si può capire la vera posta in palio della guerra, nonché le sue origini e le sue ragioni: geopolitica allo stato puro, nessun dicotomico scontro tra il bene e il male.

Come rilevato dalla nota organizzazione no-profit statunitense Freedom House, l’Ucraina è un “regime ibrido”, “parzialmente libero”, che “ha attuato una serie di riforme positive dopo la cacciata del presidente Viktor Yanukovich nel 2014” e dove “la corruzione rimane endemica e le iniziative per combatterla vengono attuate solo in parte. Gli attacchi contro giornalisti, attivisti della società civile e membri di gruppi minoritari sono frequenti e le risposte della polizia sono spesso inadeguate”.

Il cambio di schieramento non ha avuto riflessi tangibili e significativi: l’Ucraina veniva definita una “cleptocrazia” nel pre-Euromaidan dai diplomatici statunitensi, e ha continuato a troneggiare incontrastata nella classifica della corruzione anche nel dopo-2014. L’anno scorso, secondo Transparency International, l’Ucraina presentava l’indice di corruzione più elevato d’Europa. Il secondo, in realtà, se nella definizione di Europa si volesse includere anche la Russia.

Secondo il rinomato Cato Institute, il think tank del libertarismo a stelle e strisce, “Washington deve liberarsi del mito di vecchia data che vorrebbe l’Ucraina una fiorente democrazia all’americana. La verità è che [l’Ucraina] presenta molte più somiglianze con i sistemi pseudodemocratici di Russia, Ungheria e Turchia”.

Per quanto concerne la libertà di stampa, invece, Reporter senza frontiere posiziona il Paese al 97esimo posto nel mondo – su 180 nazioni prese in considerazione –, poco dopo la Serbia e subito prima della Liberia. Secondo il rapporto, l’influenza degli oligarchi sui media è ancora troppo forte, il mestiere del giornalista continua a essere rischioso – più di 15 tra cronisti, opinionisti e corrispondenti assassinati tra il 2014 e il 2018 – e occorre fare di più per incoraggiare la nascita di media indipendenti.

L’ingiustizia della giustizia

Nel febbraio 2021, con una mossa acclamata dai segmenti filo-occidentali della popolazione, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskij oscurava tre reti televisive con l’accusa di diffusione di “propaganda” finanziata dal Cremlino e di essere il megafono del partito russofilo. Le reti erano nominalmente di proprietà di Taras Kozak, dell’Opposition Platform for Life (OPFL), anche se sembra che dietro ci fosse il capo dello stesso partito, Viktor Medvedchuk, che dal 2021 è agli arresti domiciliari con l’accusa di alto tradimento.

A disporre la misura cautelare nei confronti di Medvedchuk era stato il tribunale distrettuale Pecherskij di Kiev, lo stesso che dovrà stabilire se il politico ha trasferito informazioni militari secretate a Kozak mentre quest’ultimo si trovava in Russia per una visita. Kozak, per di più, nel febbraio dell’anno scorso fu anche sanzionato dal Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa.

La decisione di oscurare le cosiddette televisioni russofile, curiosamente, era stata accolta in maniera ambivalente in Occidente: supportata dagli Stati Uniti, condannata dall’Unione Europea. Il portavoce di Josep Borrell, l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, aveva commentato così la notizia: “la portata delle campagne di disinformazione che colpiscono l’Ucraina, anche dall’estero, non dovrebbe danneggiare la libertà dei media”. Joe Biden, diversamente, aveva telefonato al presidente ucraino in segno di incoraggiamento e supporto.

L’indipendenza della giustizia ucraina, la stessa che non ha voluto collaborare con l’Italia per fare luce sull’omicidio di Andrea Rocchelli, resta un grande punto interrogativo. Medvedchuk, infatti, non è l’unico esponente dell’opposizione a essere stato accusato di alto tradimento. Lo stesso destino è stato riservato all’ex presidente Petro Poroshenko. Lo scorso anno, a dicembre, l’Ufficio investigativo statale ucraino (SBI) annunciava che l’ex presidente è sospettato di alto tradimento e favoreggiamento di organizzazioni terroristiche. Gli inquirenti, riporta Euronews, sospettano un suo coinvolgimento nell’organizzazione di forniture illegali di carbone acquistato dalle aree ribelli del Donbas. Secondo l’accusa, dunque, i separatisti avrebbero beneficiato dei finanziamenti di Poroshenko. Un fatto che, se confermato, potrebbe costargli quindici anni di carcere.

La questione neonazismo

Nel giugno 2019, con il consenso tacito delle autorità e in concomitanza con l’anniversario dell’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista, a Kiev si svolgeva un concerto organizzato dall’estrema destra ucraina. L’evento aveva attratto circa 1.500 persone da tutta Europa.

Come spiegava Haaretz, un noto quotidiano israeliano, sul palco del Bingo Club di Kiev si erano alternate una mezza dozzina di band neonaziste proponenti una musica fatta di testi estremamente violenti, razzisti e apertamente antisemiti, inneggianti all’Olocausto. Raduni di questo, solitamente, vengono allestiti in gran segreto, in luoghi che solo organizzatori e partecipanti conoscono, ma in Ucraina, al contrario, l’evento avveniva a due passi dalla sede dell’Università nazionale del commercio e di economia di Kiev.

La presa del neonazismo sulla società resta bassa, come dimostrato dai successi mancati di due forze radicali inizialmente popolari nel dopo-Euromaidan come Svoboda e Settore Destro, ma esiste ed è un fatto. Un fatto innegabile, tanto da averne preso atto lo stesso Zelenskij, che a più riprese ha parlato dell’ossessione degli ucraini per il controverso Stepan Bandera.

Ucraina, ultima trincea della Terza guerra mondiale a pezzi e nazione che deve indubbiamente avere il diritto alla libertà di una politica estera autonoma e indipendente. Ma è altrettanto giusto, moralmente ed eticamente giusto, ribadire che non è oro tutto quello che luccica e che in questo caso, come in molti altri del resto, non è una mera questione di Mondo libero contro Imperi del male. Non lo è mai stata. È pura e semplice (geo)politica.