Sulle rovine di Hiroshima, “benedetta” da Fumio Kishida, si è conclusa l’edizione giapponese del summit G7. Un modo potente per ricordare “la devastante realtà della guerra nucleare”: così chiosa il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che dal vertice porta a casa il ribadito impegno degli altri sei colleghi per contrastare la minaccia nucleare. Dal canto suo, il padrone di casa Kishida, figlio di Hiroshima e della sua ora più buia, ha infatti voluto dedicare la prima parte della sua conferenza stampa finale al suo appello per il disarmo, sua vecchia battaglia personale. Tutto questo, almeno sulla carta. La realtà, al 452esimo giorno di guerra in Ucraina, è ben diversa.
L’Ucraina al centro del summit
Un summit completamente ripiegato sulla vicenda ucraina, con il presidente Volodymyr Zelensky in persona alla ricerca del supporto dei sette Grandi. E proprio questi ultimi, prima di congedarsi dal meeting, hanno ribadito il loro “fermo impegno a fornire assistenza diplomatica, finanziaria, umanitaria e militare all’Ucraina“: un altro modo per rinegoziare l’impegno con Kiev e sottoscrivere il piano di pace proposto dal presidente ucraino che passa, innanzitutto, dal ritiro delle truppe di Mosca dai territori occupati. La proposta, avanzata dal n.1 di Kiev è quella di un vertice monotematico per realizzare la giusta formula di pace, da tenersi presumibilmente a luglio, a 500 giorni dall’inizio del conflitto alla presenza di quella che definisce una “maggioranza mondiale”. Una road map i cui punti possano corrispondere a differenti risoluzioni in seno alle Nazioni Unite, ove ogni Paese partecipante si dichiari disponibile a implementare il punto specifico scelto dal suo governo.
Grande show del presidente Biden, che ha colto l’occasione per annunciare un nuovo pacchetto d’aiuti da 375milioni di dollari e nuovi progetti per la ricostruzione e il recupero dell’Ucraina che portano il pallottoliere americano degli aiuti alla cifra di 37 miliardi di dollari. Un messaggio all’estero e in patria, ai suoi avversari: nessuno stop agli “assegni in bianco” come minacciato dal Gop.

Il G7 in Puglia di Meloni e la proposta green di Macron
L’Italia presente con il primo ministro Giorgia Meloni, rientrata in anticipo per occuparsi della vicenda alluvioni, lancia una delle più importanti suggestioni sul futuro del gruppo. Il G7 2024, infatti, si terrà in Puglia, una scelta che non appare affatto casuale, “regione simbolo di incontro tra Oriente e Occidente”. Una conferma dell’idea di Mediterraneo allargato perseguita da Meloni, per la quale sarà necessario, prima del sostegno dei sei Grandi, soprattutto quello europeo.
Dalla Francia, proposta a sorpresa anche dal presidente Emmanuel Macron, impantanato nelle secche sia interne che internazionali. Da Parigi giunge la proposta di “un nuovo patto finanziario internazionale” per la lotta alla povertà e al cambiamento climatico di cui si dovrebbe discutere in un summit che si terrà a Parigi alla fine di giugno. In questa proposta dovrebbe celarsi anche un progetto di riforma del Fondo Monetario Internazionale che possa elargire finanziamenti ai Paesi che ne hanno bisogno. Un piano abbozzato, alquanto fumoso, che passa per la necessita del capo dell’Eliseo di ricostruirsi una postura internazionale green e terzomondista (soprattutto in Africa), dopo essere caduto in disgrazia da potenziale leader d’Europa.
La Cina convitato di pietra
Il meeting tra i leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti ha visto nell’assertività cinese uno dei suoi dossier caldi. Il premier britannico Rishi Sunak ha definito Pechino come “la più grande sfida della nostra epoca” tacciando Xi Jinping di un sempre maggiore autoritarismo in patria e all’estero: da qui il ringraziamento di Taiwan ai leader per il sostegno dei leader occidentali. Qualcosa però non deve funzionare nella special relationship con Washington se, dalla stessa Hiroshima, il tono del presidente Biden risulta decisamente diverso: “penso che molto presto assisterete all’inizio del disgelo” ha dichiarato alla stampa, mostrandosi possibilista e accogliente proprio nei giorni in cui il profeta della diplomazia triangolare Henry Kissinger compie 100 anni.
Un tono ammorbidito verso Pechino che Biden ha tentato di mostrare più volte in occasioni internazionali, come nel caso del discorso alle Nazioni Unite dello scorso settembre, quando aveva ribadito quel secco “no cold war” pronunciato a proposito della competizione con la Cina, ribaltando completamente l’ostinazione aggressiva volta a inseguire il “China second” così come i toni drammatici di Anchorage.
Un’occasione, tuttavia, per ribadire anche che i leader del G7 “non vogliono il disaccoppiamento economico ma diversificare e ridurre i rischi del rapporto con Pechino”. Un’ammissione internazionale dell’ineluttabilità delle pastoie economiche cinesi alle quali però Biden rimarca la necessità di resistere, diversificando catene di distribuzione, proteggendo le tecnologie avanzate e cruciali per la sicurezza, resistendo alle costrizioni economiche: in altre parole chip. Una tesi che ha ribadito nella sua “politica estera per la classe media” che Jake Sullivan ha approntato per la Casa Bianca.
Il Global South Forum: il G7 che non basta più a se stesso
Al tavolo di Hiroshima le poltrone sono state ben 16. Oltre ai rappresentanti dei sette e dell’Unione Europea, il premier giapponese ha esteso l’invito ai rappresentanti di India, Brasile, Indonesia, Vietnam, Australia, Corea del Sud, Isole Cook e Comore, in rappresentanza, rispettivamente, dell’Unione Africana e del Forum delle Isole del Pacifico dei quali detengono attualmente la presidenza. Perché? Il G7 di Kishida è la prova che questa mini assise del nord-ovst del mondo non sia più adatta a discuterne le sorti. Ma soprattutto che, per giungere a soluzioni condivise e durature per la pace in Ucraina, è necessario coinvolgere le istanze del mondo che nel conflitto hanno rifiutato di schierarsi e che coltivano importanti ed essenziali relazioni commerciali sia con l’Occidente che con la Russia.
Un solo dato economico basta a spiegare come il G7 sia un’istituzione superata: in termini di influenza, la sua quota dell’economia globale è passata dal 70% degli anni Ottanta al 44% di oggi. Ciò significa che il contrasto alla Cina, le sanzioni alla Russia, le scelte energetiche e la lotta al cambiamento climatico non potranno più passare per un mero concerto a 7 nel prossimo futuro. Le economie emergenti e i Paesi in via di sviluppo possiedono legami importanti e potenti sia con la Russia e sempre più con la Cina: questo è un dato di fatto.
L’Occidente può combatterlo ma deve tenere conto di una prelazione che non possiede più. La percentuale del PIL mondiale prodotta da quello che viene indicato come “sud globale”, supera ormai il 50% e proviene da economie non affette né da invecchiamento della popolazione, tantomeno da cali demografici. Un vantaggio competitivo straordinario rispetto alle malandate società del gruppo dei Sette. Un tentativo sincero, quello da parte di Kishida, che tuttavia tradisce la crisi a livello globale del concetto di multilateralismo. Ma soprattutto una crisi di coerenza che rischia di scadere nella sempiterna accusa di neocolonialismo: ha senso propagandare l’impegno verso il sud globale seguitando ad esigere, al tempo stesso, il rimborso dei debiti da Paesi a medio e basso reddito? L’appuntamento tra un anno, in Puglia.