Ha preso il via venerdì 14 febbraio la 56esima Conferenza sulla sicurezza a Monaco: 35 capi Stato, centinaia di ministri e delegati internazionali riuniti per discutere i principali temi geopolitici e le sfide internazionali di questo 2020.  Il meeting, che si chiuderà il 16 febbraio, avrà in cima all’agenda l’emergenza coronavirus, la guerra in Libia, la complessa situazione mediorientale, il Kashmir, ma sarà anche occasione di riflessione sullo status degli equilibri internazionali in questo momento.

La “westlessness”

Il segretario di Stato americano Mike Pompeo, il presidente francese Emmanuel Macron, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i ministri degli Esteri di Russia, Iran e India sono tutti attesi. Il tema di quest’anno ruota attorno al distacco occidentale da numerosi focolai di sicurezza, indicando un continuo disagio sull’identità e lo scopo dell’Occidente: un crescente scisma nelle relazioni transatlantiche e nell’ordine postbellico, mentre la presidenza di Donald Trump spinge gli Stati Uniti oltre l’Europa. Anche la sicurezza comune in Europa è all’ordine del giorno; il continente risulta più che mai fratturato a seguito della Brexit e attanagliato dalla crescita di movimenti nazionalisti, xenofobi e illiberali. Una sorta di riflessione sull’Occidente stesso, insomma: gli organizzatori della conferenza hanno esortato i partecipanti a considerare se il mondo, e il West Side of the World stiano diventando “meno occidentali” di un tempo, e come si modellerà la sicurezza globale se le potenze occidentali scemeranno in termini di rilevanza e influenza.

Un Occidente contestato sia dall’interno che dall’esterno e che ha perso un meccanismo di comprensione comune. A minacciare alcuni vecchi valori comuni postbellici l’ascesa di visioni chiuse: il report che anticipa annualmente la conferenza cita il partito spagnolo di estrema destra Vox, ma anche Donald Trump e l’ungherese Viktor Orban. Guardando all’esterno il primo segno di questo occidente evanescente è la fine, incontestabile, della superiorità militare che aveva forgiato la fine della Seconda guerra Mondiale, celebrata poi dalla “vittoria” della Guerra fredda. L’ascesa in campo di nuovi attori forti come Turchia e Russia, la proliferazione di armi convenzionali e non, impedisce all’Occidente di essere efficace in contesti complessi come quello libico, in Iraq come in Afghanistan. Un dato di fatto che sta portando gli Usa ad un progressivo isolazionismo militare disimpegnandosi da numerosi scenari e che sta mostrando tutta la debolezza della politica di sicurezza europea e l’assenza di una politica estera comune nel Vecchio Continente.

Dieci conflitti sotto osservazione

Per il 2020, l’International Crisis Group evidenzia dieci conflitti da osservare, che in molti modi riflettono le tendenze globali. Le circostanze di questi conflitti indicano cambiamenti nelle relazioni tra grandi potenze, l’intensità della competizione e l’ampiezza di ambizioni degli attori regionali. In cima alla lista c’è l’Afghanistan: sempre più persone vengono uccise a causa dei combattimenti più che in qualsiasi altro conflitto attuale nel mondo. Eppure potrebbe esserci una finestra nel 2020 per avviare un processo di pace attraverso un possibile accordo tra gli Stati Uniti e i talebani.

A seguire lo Yemen: questo conflitto è diventato una faglia critica in tutto il Medio Oriente tra l’Iran da un lato e gli Stati Uniti e i suoi alleati regionali dall’altro. Pertanto, l’opportunità per la pace presentata dai recenti colloqui tra sauditi e houthi potrebbe evaporare presto, in particolare se si intensificassero le tensioni tra Stati Uniti e Iran nello Yemen.

Veniamo ora all’Etiopia: la transizione del Paese sotto il primo ministro Abiy Ahmed rimane una fonte di speranza, ma comporta anche il rischio di un disfacimento violento. A seguito di numerosi scontri etnici, molti analisti avvertono che il Paese potrebbe frantumarsi come ha fatto la Jugoslavia negli anni ’90, con conseguenze disastrose per una regione già in difficoltà. C’è poi il Burkina Faso: l’ultimo Paese caduto vittima dell’instabilità che affligge il Sahel sta combattendo un’insurrezione militante islamista che è iniziata nel nord, ma si è diffusa in molte altre aree rurali: il Paese lotta con i disordini pubblici nella sua capitale da tempo. Migliore condivisione dell’intelligence con i vicini, controlli alle frontiere più rigorosi e politiche mirati a conquistare gli abitanti dei villaggi saranno fondamentali per impedire l’appeal islamista.

Tema caldissimo, la Libia: le potenze straniere hanno intensificato notevolmente il coinvolgimento in Libia, arena per competizioni esterne seguite al rovesciamento di Muammar al Gheddafi nel 2011: una situazione di stallo che potrebbe prolungare i combattimenti all’infinito. Vi è poi il nodo del Golfo Persico: il 2020 ha già portato le tensioni al punto di ebollizione tra gli Stati Uniti e l’Iran che sono aumentate pericolosamente nel 2019. Una svolta diplomatica per ridurre le tensioni tra gli Stati del Golfo e l’Iran o tra Washington e Teheran sembra improbabile, al momento. Ben più complessa la situazione tra Stati Uniti e Corea del Nord: le prospettive per la riapertura del dialogo sembrano ridursi dopo che Pyongyang ha condotto nuovi test per migliorare la sua tecnologia missilistica alla fine del 2019.

Sotto osservazione anche il “malato” Venezuela: dopo essere uscito da una rivolta civile-militare nell’aprile 2019, Maduro ha subito un boicottaggio regionale e una serie di sanzioni statunitensi. Il suo governo rimane isolato e privo di risorse, mentre sette milioni di venezuelani hanno bisogno di aiuti umanitari e i servizi pubblici sono al collasso. Anche l’Ucraina è un sorvegliato eccellente per via del conflitto del Donbass che sembra intraprende la lenta strada della de-escalation: eppure, se la pace sembra leggermente più plausibile ora di un anno fa, i piani recenti per un cessate il fuoco più completo e il disimpegno potrebbero crollare da un momento all’altro e i combattimenti potrebbero intensificarsi. Il 2019 ha visto anche ritornare la violenza in Kashmir: dopo essere sparito dal radar internazionale per anni, l’area ha visto una riacutizzazione dello scontro tra l’India e il Pakistan. New Delhi sembra non avere una tabella di marcia per ciò che verrà dopo. Se emergerà una nuova crisi, dovranno essere le potenze straniere a far sentire il loro peso per preservare la pace su uno dei confini più insanguinati del Pianeta.

 Il gigante cinese

Se l’Occidente sfiorisce, la Cina corre senza sosta. Con il 70esimo anniversario della Repubblica popolare, il 2019 è stato un momento importante e un anno stimolante per la leadership cinese. I festeggiamenti per l’anniversario hanno dato al presidente Xi Jinping l’opportunità di ostentare la continua ascesa della Cina verso un potere economico e militare alla pari con l’Occidente. Nello stesso spirito Pechino sviluppa continuamente capacità per proiettare il suo potere nell’ Asia-Pacifico. Ha potenziato gli avamposti nel Mar Cinese Meridionale, sta costruendo una terza portaerei e ha sviluppato un deterrente nucleare “credibile”. Oltre all’hardware militare, i balzi che la Cina sta compiendo in altri ambiti, come quello tecnologico, si sentono in tutto il mondo: intelligenza artificiale, quantistica, tecnologia informatica e di connettività come il 5G. La preoccupazione crescente è che nel futuro prossimo Paesi come Cina e Russia optino per una segregazione tecnologica dal mondo in risposta alle minacce culturali e politiche occidentali. Anche internamente, la leadership della Cina – e in particolare Xi – sta rafforzando la sua presa. Il partito si sta inoltre reinserendo sempre più nell’economia cinese,rafforzando i comitati di partito all’interno delle imprese. L’emergenza coronavirus sembra mettere in queste settimane in ginocchio il gigante cinese: il modo in cui ne uscirà confermerà o meno il ruolo chiave globale che il Paese ha acquisito nel corso dell’ultimo decennio.