Nel febbraio di 71 anni fa la Turchia entrava nella Nato. La scelta era figlia dei primi vagiti di Guerra Fredda: l’Unione Sovietica aveva chiesto alla Turchia, che rifiutò, basi militari e nuove condizioni per l’accesso agli stretti turchi. Il Regno Unito, che in quella fase aveva abdicato al suo ruolo di grande potenza mondiale, aveva lasciato il suo fardello agli Stati Uniti, pronti a riservare la dottrina Truman al contesto dell’Egeo. Così, il ruolo di ponte tra Occidente e Oriente che Bisanzio aveva sempre rivestito, adesso veniva imbrigliato nel Patto Atlantico e, indissolubilmente, ai destini dei Paesi occidentali: una funzione di cuscinetto e di custode di quei due stretti, sacri in ogni epoca.

Le (vecchie) ambizioni di Ankara

Eppure il rapporto tra Ankara e Nato non è sempre stato idilliaco, vivendo alti e bassi tra pragmatismo, “scontri di civiltà” e reciproche accuse. Tuttavia, per i cittadini turchi oltre che per Recep Erdogan, come disse qualcuno, evidentemente ci si sente più sicuri “a stare di qua”. Solo nell’ultima manciata di anni, Erdogan ha regalato all’Europa una serie di ragioni per continuare a chiedersi che senso avesse la Turchia nella Nato: lo scambio di villanie con Emmanuel Macron, il ricatto sui profughi siriani, la questione del genocidio armeno, il “peccatuccio” dei S-400 dalla Russia fino alla strana e complessa situazione dell’ultimo anno e mezzo, che ha reso Erdogan una sorta di libero giocatore, per giunta ringalluzzito dalla sua rielezione. Quanto basta per mettere nuovamente sotto scacco la Nato, cedendo alle ambizioni di Stoccolma, ma mettendo sul tavolo la più ardua delle richieste: l’ingresso nell’Unione Europea. Una manovra da Realpolitik da manuale, da navigato funambolo della geopolitica. O un ricatto, che dir si voglia, non ancora ben chiaro sulla pelle di chi.

L’incontro a vIlnius tra Recep Erdogan con il primo ministro Ulf Kristersson, “benedetto da Jens Stoltenberg (EPA/FILIP SINGER / POOL).

Turchia-Ue: un connubio difficile

Il sogno che la Turchia accarezza dalla fine degli anni Ottanta sembra dunque tornare a splendere dopo anni di turbolenze e relative stasi che si ripetono almeno da vent’anni, entro ai quali abbiamo assistito a tutto e il contrario di tutto: dal no assoluto di Giscard d’Estaing per questioni demografiche fino all’entusiasmo febbrile di Jens Stoltenberg, passando per un sofa gate e un etichetta (per Erdogan) di “dittatore di cui abbiamo bisogno”.

Ora che l’accordo è servito, e vista la celerità con la quale Ankara promette di ratificare l’ingresso della Svezia nell’Alleanza, c’è da aspettarsi che l’Unione Europea ora si prenda questa responsabilità, di fronte alla quale non saranno ammessi doppi giochi o temporeggiamenti, essendo in ballo la stabilità del Patto Atlantico e della sua pace interna. Che ora, è interamente nelle mani dell’Unione, finalmente alla sua prova di maturità, e si intreccia con il processo di adesione della Turchia. Le difficoltà che questo connubio dovrà affrontare sono molteplici e reciproche: costringerà l’Europa e la Turchia a fare i conti con i propri fantasmi reciproci. L’Ue sarà disposta a trattarla da pari? L’Unione dovrà chiudere un occhio sui diritti umani? Altra annosa questione: l’Islam. L’Europa è culturalmente e politicamente pronta ad accogliere 80 milioni di musulmani come cittadini europei?

Se la Turchia smette di essere ponte e cuscinetto

Ma volendo andare oltre questo punto, sono i mutamenti strategici che diverranno epocali. Come ha sottolineato all’Adnkronos il generale Giorgio Battisti, primo comandante del contingente italiano della missione Isaf in Afghanistan e membro del Comitato Atlantico, il Mar Baltico ora diverrebbe un lago occidentale sotto il controllo dell’Alleanza Atlantica, disturbando Mosca e la sua flotta che “potrebbe essere soggetta a restrizioni o limitazioni da parte della Nato e in caso, speriamo mai, di un conflitto Nato-Russia la flotta baltica russa sarebbe comunque intrappolata perché tutte le coste del mar Baltico, sia quelle settentrionali che meridionali sono coste di paesi membri della Nato”.

Ma soprattutto, la Turchia smetterebbe di essere ponte e cuscinetto, abdicando ad una funzione storica. Stessa cosa per i Paesi ex-Cortina di Ferro, anch’essi ex cuscinetti trasformatisi in zone d’attrito. All’indomani di Vilnius, dunque, si trasformerebbe la penisola anatolica nell’ultimo avamposto, sempre più armato, della Nato e dell’Unione Europea: bisogna ricordare che Ankara ha, infatti, chiesto un ruolo maggiore nell’Alleanza, chiedendo agli Usa una nuova fornitura di 40 F-16 e qualche migliaio di missili. Il ponte diventato bastione ora si protenderà, in posizione assertiva, sia verso est-verso la Russia e tutto il Caucaso ex sovietico, ma anche verso Africa e Medio Oriente, diventando un confine (chiuso) più che un passaggio.

Da parte turca questo atteggiamento può trovare differenti spiegazioni, tra cui una parziale debolezza di Erdogan, conscio della relazione pericolosa con Mosca e dei vantaggi eventuali che la membership europea gli donerebbe. Ma forse è l’Unione a non avere ben chiaro che, allungare le proprie propaggini oltre il Bosforo, per la Nato e i Paesi occidentali (e quindi anche europei) vorrà dire perdere quella camera di compensazione-a metà tra est e ovest- esponendosi a nuovi rischi. Perfino più grandi di quelli derivanti da un ingresso rapido dell’Ucraina nel Patto. L’Europa come gli Stati Uniti devono riconoscere, obtorto collo, che l’accordo sul grano, così come la mediazione sui prigionieri o il progetto di un fantomatico hub del gas hanno funzionato per via del Giano bifronte Erdogan. Potrà la Turchia, con una doppia affiliazione, essere ancora credibile mediatrice negli altrove che non sono l’Europa? Viceversa, cosa accadrebbe se una volta nell’Unione, Ankara seguitasse ad agire come libero giocatore?

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