Il matrimonio di convenienza fra Russia e Turchia sembra volgere rapidamente al termine, dopo aver raggiunto l’apogeo nel dopo-golpe del luglio 2016 con l’affare S400 e con gli accordi di Astana. Nella tarda giornata di ieri, dopo settimane di schermaglie reciproche, un attacco aereo presumibilmente condotto dalle forze armate russe su Idlib ha lasciato a terra 36 morti, tutti soldati turchi, sebbene Ankara abbia ufficialmente accusato Damasco dell’accaduto.

Il motivo per cui l’asse russo-turco si sta disgregando a ritmi serrati, e senza neanche aver prodotto risultati, è molto semplice: è anti storico. Se l’analisi delle relazioni internazionali può insegnare qualcosa di veramente importante è che, come diceva Cicerone, “Historia magistra vitae” e neanche le più grandi potenze sfuggono alla legge geofilosofica dell’eterno ritorno, della costante storica dei conflitti perpetui. Nel 2020 come nel 1853, Russia e Turchia continuano ad essere rivali geopolitici perché guidate da interessi confliggenti in aree di influenza contigue.

Libia

Russia e Turchia si sono introdotte nella caotica partita libica approfittando del fatto che la Francia non è riuscita a stabilire una propria egemonia all’indomani della caduta di Mu’ammar Gheddafi. I due paesi, però, giocano in schieramenti contrapposti: Mosca sostiene il generale Khalifa Haftar, che a sua volta gode dell’appoggio egiziano, francese, emiratino e di altre potenze regionali, mentre Ankara supporta il capo di governo provvisorio Fayez Al Sarraj, che a sua volta gode del riconoscimento di Nazioni Unite, dell’Italia (a fasi alterne) ed è supportato esternamente dai Fratelli musulmani.

Ucraina

La Turchia è uno dei paesi che sta approfittando e guadagnando maggiormente dalla rottura traumatica fra la Russia e l’Ucraina. Il partenariato ha preso forma recentemente, ma sta evolvendo rapidamente e tocca ormai i più importanti settori strategici: sicurezza regionale, difesa, industria militare, agricoltura. Ankara reitera periodicamente la propria posizione sulla Crimea, ritenendo illegale l’annessione da parte russa, ed è interessata alla penisola per un motivo molto particolare: i tatari.

I tatari sono una popolazione di etnia turca e di religione islamica, il cui insediamento nella penisola è molto antico, e che dal post-annessione sono entrati nel mirino dei servizi segreti russi (Fsb) per via delle loro attività antigovernative e per via del radicamento in seno la loro comunità di un’organizzazione terroristica islamica, Hizb-ut-Tahrir. Una eventuale insurrezione tatara getterebbe nel caos la penisola, anche perché costituiscono circa il 15% della popolazione totale, e la situazione è complicata sia dalle interferenze turche che dall’esistenza di un preoccupante e crescente fenomeno di radicalizzazione religiosa. Sarebbero almeno 100 i tatari di Crimea partiti per il Siraq dal 2013 ad oggi, 30 dei quali per arruolarsi nell’esercito di Abu Bakr al-Baghdadi.

Erdoğan ha dichiarato che la protezione dei tatari è una priorità dell’agenda estera di Ankara e ha definito la Crimea la “loro storica madrepatria”. In questo contesto si inquadrano gli sforzi di intensificare con gli esuli, i tatari rifugiatisi in Ucraina o in Turchia, che potrebbero essere utilizzati per infiltrare la comunità della penisola in chiave antirussa. Molto emblematica, a tal proposito, è la recente apertura di un ufficio di rappresentanza dei tatari di Crimea ad Ankara, alla quale ha preso parte anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Moldavia

La Russia ha gradualmente abbandonato la penisola balcanica al suo destino, ossia quello dell’inglobamento nell’Unione Europea e nella Nato, limitandosi a mantenere due avamposti: Serbia e Moldavia. In entrambi i paesi continua ad essere forte l’influenza culturale di Mosca, per via del fascino sempreverde esercitato dall’idea della fratellanza slavo-ortodossa, ma a Chișinau, o meglio a Comrat (il capoluogo della Gagauzia), si sta registrando un insolito e sospetto protagonismo da parte turca che, in futuro, potrà essere fonte di problemi per l’agenda del Cremlino nel paese.

Contrariamente alla narrativa predominante, la Moldavia non è afflitta da un solo conflitto congelato, ma da due: quello con la Transnistria, e quello con la Gagauzia. Mentre sulla prima regione separatista si è scritto e continua a scriversi molto, sulla seconda scarseggiano le informazioni, pur essendo altrettanto importante. La Gagauzia è una regione autonoma della Moldavia abitata da una popolazione turcica, i gagauzi appunto, che nel 1991 tentò di secedere da Chișinau, indicendo anche un referendum. Le velleità indipendentiste furono addormentate ricorrendo ad un’ampia devoluzione di poteri e funzioni dal governo centrale a Comrat, ma negli ultimi anni si sta assistendo al ritorno in scena del nazionalismo gagauzo su spinta turca.

Fra il 1993 ed il 2012 l’Agenzia di Coordinamento e Cooperazione Turca (Tika) ha investito in Moldavia circa 24 milioni di dollari, la maggior parte dei quali proprio in Gagauzia, dove ha finanziato progetti infrastrutturali, energetici e culturali, come ad esempio la costruzione di scuole di lingua turca e gagauza, ospedali, asili, case di cultura, una biblioteca. I centri di cultura stanno servendo l’obiettivo di creare una rottura con la società circostante, slava ed ortodossa, enfatizzando la comune identità turca che lega i due popoli e promuovendo, pertanto, un “ritorno alle origini” dei gagauzi.

Nell’ottobre 2018, in occasione della due-giorni ufficiale di Erdoğan in Moldavia, il presidente turco ha fatto una storica visita a Comrat, incontrando la governatirce Irina Vlah e dichiarando che Ankara stava lavorando per garantire alla regione la “piena autonomia” e che avrebbe fornito tutto l’aiuto e gli incentivi necessari per tale scopo.

Più recentemente, lo scorso dicembre, Erdoğan ha annunciato che sarà aperto un consolato a Comrat per foraggiare la collaborazione bilaterale e che la proprietà delle scuole private fino a pochi mesi fa gestite dalla rete gulenista in Moldavia, scardinata grazie al supporto dei servizi segreti di Chișinau, passerà alla fondazione Maarif, un ente che è stato accusato di promuovere l’agenda neo-ottomana nei Balcani.

Russia

Mesut Hakki Casin, consigliere personale di Erdoğan, ha avvertito la Russia che da un eventuale confronto con la Turchia ne uscirebbe “distrutta”, anche perché ospita al suo interno una vasta comunità musulmana che sarebbe pronta a sostenere la causa di Ankara. Quella di Casin non è una minaccia infondata, perché la Russia è effettivamente alle prese con una radicalizzazione religiosa galoppante e con il ritorno dei separatismi etno-religiosi nelle regioni a maggioranza musulmana, dal Caucaso settentrionale alla Russia centrale.

I due fenomeni, radicalizzazione e separatismo, sono indubbiamente foraggiati dai petrodollari delle monarchie wahhabite del golfo, ma un ruolo di primo piano è svolto anche dalla Turchia. Dal Dagestan al Tatarstan, passando per la Circassia e la Baschiria, negli ultimi 20 anni Ankara ha costruito una fitta rete a base di scuole coraniche, centri di cultura, moschee, che si occupa di intensificare i legami fra le repubbliche autonome, come il Tatarstan, e la loro “madre patria”, ossia la Turchia.

Dopo che il Fsb ha appurato quanto sia stato fondamentale l’operato turco nel galvanizzare la ricomparsa di movimenti secessionisti ed ostacolare la russificazione nel Caucaso settentrionale, il Cremlino ha recentemente ridotto il grado di autonomia delle repubbliche più vulnerabili, come il Tatarstan, e disposto il divieto di operare nel territorio ad enti legati ad Ankara, come ad esempio l’Organizzazione Internazionale della Cultura Turca.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.