La vittoria di Donald Trump porta con sé alcune considerazioni che il mainstream, per livore nei confronti di una sconfitta inattesa quanto dolorosa, forse si rifiuta di assumere come colpe proprie del Partito Democratico. Negli ultimi 25 anni, esclusi gli otto anni della presidenza di George W. Bush, il DNC ha governato con quattro amministrazioni la cui qualità dell’operato può essere messa in discussione sotto vari punti di vista.La questione del muro al confine col Messico è stato uno dei punti più discussi del programma di Trump, cui è costato l’appellativo di razzista e, peggio, fascista. Si è già detto, per giunta, che la costruzione di questa barriera risale ad oltre 20 anni fa, iniziata sotto la presidenza di Bill Clinton e ultimata sotto l’amministrazione Obama, a sua volta responsabile di una politica di rimpatrio degli immigrati clandestini decisamente aggressiva. Gli Stati Uniti hanno sempre tenuto sotto controllo la porosità dei propri confini, macchiandosi dunque di numerosi atti violenti nei confronti di coloro che cercassero di attraversare il confine meridionale senza permesso. Già nel NAFTA, il trattato Nord Americano di Libero Scambio, si è regolamentato in maniera molto rigida il controllo delle migrazioni tra Messico e Stati Uniti, nell’ottemperanza di metodi sicuri e legali di regolamentazione del mercato del lavoro.Il “populismo” del tycoon newyorkese, che è andato ad influenzare i voti dei cosiddetti WASP, i bianchi protestanti anglosassoni del cuore dell’America, è stato criticato dai democratici che hanno messo in atto diversi round di proteste in tutto il Paese contro l’elezione del candidato repubblicano. Ancora una volta il mainstream ha riproposto l’assurdità di un ragionamento che mina le basi de buonsenso e del sale della democrazia: chi sostiene che il diritto all’elettorato attivo debba subire una restrizione della base popolare a chi abbia le caratteristiche culturali e comportamentali di dubbia obbiettività va contro gli stessi principi di uguaglianza su cui si basa l’esportazione della democrazia in quei Paesi nei quali si condanna l’assenza delle libertà personali, in quanto persone fisiche e persone giuridiche.LEGGI ANCHE: Un muro che esiste giàGià, l’esportazione della democrazia laddove le dittature hanno regnato per decenni, oggi vittima del caos in balia del terrorismo internazionale. Di esempi se ne potrebbero ricordare diversi, dall’Afghanistan nel 2001, all’Iraq nel 2003, alla Libia e alla Siria nel 2011. Questi ultimi due conflitti sono stati fortemente sponsorizzati dal Premio Nobel per la Pace 2009, Barack Obama, coadiuvato dall’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton che, insistendo per un intervento militare occidentale nei Paesi, ha sperato di lanciare la propria carriera politica che sarebbe culminata con l’elezione della stessa, salvo l’imprevisto Trump. Queste considerazioni sono state confermate dall’inchiesta portata avanti da Julian Assange e WikiLeaks, che hanno pubblicato le decine di migliaia di mail della corrispondenza della Clinton Segretario di Stato, fortemente convinta dell’avvio di questi conflitti.Un altro punto controverso della politica dei Democratici riguarda le questioni sociali che costituiscono ancora un allarme nell’America odierna. Il movimento Black Lives Matters nasce nel luglio del 2013 come protesta contro le disuguaglianze sociali che dilaniano il Paese, mettendo a nudo gli atti di razzismo e la disparità di giudizio ai danni dei cittadini afroamericani nel sistema giudiziario penale americano. Tutto ciò nonostante nel 2008 gli americani abbiano eletto il primo Presidente di colore della loro storia, quasi come una culminazione della conciliazione razziale in un Paese inquadrato da sempre come la terra delle libertà e dell’uguaglianza, principi intrinsechi della stessa storia americana, in quanto crogiolo di razze che da oltre duecento anni abitano il continente.Il trionfo del populismo è dunque figlio di un malcontento pluridecennale che è culminato nell’elezione di un candidato che, perlomeno a parole, ha dimostrato maggiore inclinazione verso i problemi della cittadinanza, abbandonando la retorica del politichese che ha contraddistinto, ancora una volta, la campagna elettorale dei democratici. Le colpe della sconfitta, difatti, sono da attribuirsi anche e soprattutto ad una autoreferenzialità dell’establishment politico, che con pecca di narcisismo si è specchiato nella sua immagine riflessa, forse eccessivamente convinto della propria qualità e professionalità rispetto ad un uomo d’affari violento e volgare. Il terzo incomodo, Bernie Sanders, forse l’unico davvero all’altezza di ricoprire il ruolo tanto ambito, è stato anch’egli vittima del sistema della logica partitica, dal momento che la candidatura gli è stata negata proprio a causa del perverso gioco politico dei superdelegati, membri interni al Partito Democratico, che hanno fatto confluire in blocco i propri consensi verso Hillary Clinton. Ha perso la politica, non la democrazia.

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