In questi giorni il campo repubblicano si è riempito di nuovi candidati alla presidenza con una cosa in comune: sono stati trumpiani in qualche modo e non hanno alcuna possibilità di prevalere su Donald Trump. Perché dunque lanciarsi in una contesa dove con tutta probabilità si verrà macellati dal frontrunner e dai suoi attacchi spesso accompagnati da nomignoli infamanti?

Ci sono varie ragioni e alcune hanno a che fare con ambizioni nemmeno troppo ben nascoste. Ma andiamo con ordine: al 8 giugno del 2023 i candidati repubblicani con una qualche chance di vincere sono dieci. Inutile contare quei personaggi che sono soliti candidarsi senza essere nemmeno notati. A questa tornata ci sono un consulente fiscale texano, un uomo d’affari del Michigan e un amministratore locale del Rhode Island.

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Donald Trump Foto: EPA/ADAM DAVIS

Larry Elder

I media non si accorgeranno mai di loro e gli storici si interrogano su cosa muova certe persone. Passiamo oltre. Partiamo dai candidati con una certa notorietà. Larry Elder è un conduttore radiofonico californiano di destra che è arrivato secondo nel 2021 nelle elezioni di recall in California, vinte largamente dal governatore in carica Gavin Newsom. Impossibile che riesca ad affermarsi. Gli stessi analisti a stento ricordano la sua candidatura. Unica chance per lui è quella di vincere qualche voto in California. Peccato che saranno il 5 marzo, dopo le decisive elezioni di Iowa e New Hampshire.

Larry Elder Foto di: EPA/CAROLINE BREHMAN

Asa Hutchinson e Doug Burgum

Altri due candidati, invece, in altre epoche avrebbero avuto qualche strada: si tratta dell’ex governatore dell’Arkansas Asa Hutchinson e del suo omologo del North Dakota Doug Burgum, ultimo a essere sceso in campo. Entrambi sono conservatori adamantini che però hanno saputo essere pragmatici nella loro azione di governo. Difficile però che riescano a conquistare i cuori dei militanti due bianchi di mezza età (rispettivamente 72 e 66 anni) dai modi affabili.

Il governatore dell’Arkansas Asa Hutchinson
Foto: EPA/CJ GUNTHER
Il governatore del North Dakota Doug Burgum
Foto: EPA/Andrew Harrer / POOL

Mike Pence e Chris Christie

Passiamo a un altro esponente politico che avrebbe anche qualche chance, ma di fatto non piace a nessuno: l’ex vicepresidente Mike Pence è troppo tiepido e “traditore” per i trumpisti mentre per i moderati è sempre quel superconservatore vicino agli evangelici con posizioni vagamente omofobe. E che dire dell’imprenditore del tech di origine indiana Vivek Ramaswami? Uno dei suoi obiettivi sarebbe quello di “far riavvicinare le due Americhe”, quella conservatrice e quella progressista. Impossibile farlo da una piattaforma dove bene o male si deve parlare bene del quadriennio presidenziale di Donald Trump.

Domanda che dovrebbe mettere a disagio anche Chris Christie, ex governatore del New Jersey passato dall’essere un trumpiano di ferro a uno dei critici più feroci dell’ex presidente. Forse la sua ragione è spingere le vendite dell’immancabile saggio a sua firma che precede ogni campagna presidenziale che si rispetti.

Mike Pence
Foto: EPA/CAROLINE BREHMAN
Chris Christie
Foto: EPA/CAROLINE BREHMAN

Tim Scott e Nikki Haley

Veniamo ora ai candidati di una certa rilevanza: due di loro vengono dalla South Carolina e parliamo del senatore Tim Scott e dell’ex governatrice Nikki Haley. Entrambi hanno programmi articolati e riferimenti elevati a due ex presidenti come Abraham Lincoln e Ronald Reagan nonché ottime credenziali politiche per riuscire a portare avanti una presidenza post-trumpiana. E non si esclude che possano vincere qualche Stato. Forse però sono troppo complessi questi per un elettorato che ha fame di polemiche e di guerre culturali e a poco vale il background di ascesa sociale da contesti di povertà estrema per entrambi.

Tim Scott
Foto: EPA/CJ GUNTHER
Nikki Haley
Foto: EPA/CJ GUNTHER

Ron DeSantis

Polemiche che invece il governatore della Florida Ron DeSantis gradisce in abbondanza. Durante il suo periodo in carica ha attaccato i migranti irregolari, le donne che abortiscono, i docenti progressisti e le grandi aziende troppo “woke” per le loro politiche di inclusione sociale. Per DeSantis poi gioca a favore anche la rielezione trionfale lo scorso novembre tanto che molti analisti lo davano come favorito per soppiantare il trumpismo.

Ron DeSantis, Foto di: EPA/CJ GUNTHER

Quello che manca a DeSantis invece è il carisma e il calore umano nei confronti delle persone, caratteristiche che non mancano affatto al frontrunner indiscusso Donald Trump che secondo i sondaggi è destinato a prendere una percentuale ben superiore al 50% dei voti, seguito da Ron DeSantis intorno al 30%. Gara chiusa ancor prima di iniziare? Tutto fa sembrare che possa essere così anche se il punto debole di Trump rimane sempre lo stesso: la perdita del sostegno dei moderati. Chi mostrerà sufficiente coraggio e intelligenza per attaccarlo su questo punto potrà cambiare qualcosa. Anche se al momento i candidati appaiono più timorosi di indispettirlo che di vincere.

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