Per Recep Tayyip Erdogan sono le elezioni più complicate da quando è al potere. Lo storico voto del 14 maggio in Turchia, che cade nel centenario della Repubblica, potrebbe mettere fine a 20 anni di dominio del fondatore dell’AKP sulla politica nazionale. Eppure, nonostante le difficoltà e un’opposizione per la prima volta compatta, sconfiggerlo non sarà facile. Erdogan ha costruito negli anni una rete di potere che può rivelarsi decisivo, e che non esiterà a mettere in campo contro Kemal Kılıçdaroğlu, suo principale avversario politico.
Lo schieramento all’opposizione
Kılıçdaroğlu guida una coalizione di sei partiti nota come “Tavolo dei 6” o “Alleanza della nazione”. Oltre al CHP, il partito di centrosinistra capeggiato da Kılıçdaroğlu, a far parte dell’alleanza sono il nazionalista Partito Buono, il Partito Democratico di centrodestra, l’islamista Partito della Felicità, e due partiti di centrodestra i cui leader sono stati legati in passato all’AKP: il Partito del Futuro, fondato dall’ex primo ministro di Erdogan Ahmet Davutoğlu, e il Partito della Democrazia e del Progresso, fondato da un altro ex ministro dell’AKP, Ali Babacan. Il gruppo è appoggiato esternamente anche dal partito curdo HDP, che ha deciso di non correre con un proprio candidato.
Secondo alcuni sondaggi, a favorire l’alleanza dei 6 è una situazione economica in continuo peggioramento. La lira turca è in caduta libera, mentre l’inflazione ha toccato l’85% a ottobre, ai massimi da 24 anni, e si è confermata oltre il 50% a marzo. A incrinare ulteriormente il consenso del presidente sono arrivate le critiche per la gestione del terremoto dello scorso 6 febbraio, che ha causato quasi 50 mila morti e oltre 2 milioni di sfollati in Turchia. Nel tentativo di metterle a tacere, Erdogan ha fatto ricorso a una delle sue armi principali: il controllo sull’informazione. Una politica che nel corso degli anni è servita per continuare a vincere.
La stretta di Erdogan sulla stampa
Da quando è salito al potere nel 2002, e soprattutto dopo il tentato golpe del 2016, Erdogan ha progressivamente stretto la presa sui media, grazie anche alla Direzione delle Comunicazioni del governo, vero braccio operativo del presidente. Guidata dall’ex accademico Fahrettin Altun, la Direzione invia costantemente indicazioni alle redazioni giornalistiche. Stando a quanto rivelato da Reuters, nelle telefonate o nei messaggi Whatsapp, i funzionari di Altun si rivolgono spesso ai direttori delle redazioni amiche con il termine “fratello”.

Durante il periodo pre-elettorale, i principali media del Paese hanno dato ampio risalto all’agenda del Presidente in carica, dominata dai temi economici. “Al momento, circa il 90% delle testate è controllato dal governo o da grandi conglomerati fedeli a Erdogan”, spiega Alessia Chiriatti, ricercatrice dell’Istituto Affari Internazionali (IAI). Secondo il World Press Freedom Index, nel 2022 la Turchia si è classificata al 149° posto nel mondo per libertà di stampa. I giornalisti e le testate che non si allineano alle veline del governo vengono silenziati, e spesso arrestati con l’accusa di disinformazione. Secondo il sindacato dei giornalisti DİSK Basın-İş, il presidente turco è stato responsabile della detenzione di quasi 900 giornalisti, oltre a esercitare un controllo diretto e indiretto sulle testate nazionali e locali e sui loro introiti. Negli anni, ha denunciato Servet Yanatma, ricercatore del Reuters Institute, l’agenzia statale Press Bulletin Authority (BİK) ha drasticamente diminuito la quota di pubblicità destinata ai giornali critici nei confronti del governo. Molti di loro non sono più riusciti a pagare gli stipendi, e sono stati costretti a chiudere.
Dopo la controversa legge sui media del 2022, che punisce con 3 anni di carcere chi è accusato di fare disinformazione, un’ulteriore stretta è arrivata a inizio aprile con l’approvazione di un nuovo regolamento per i social network. Il leader del Partito Buono, Meral Aksener, ha accusato il governo di voler censurare le critiche arrivate dagli utenti per la malagestione del post-terremoto. Proprio sulle piattaforme erano state avanzate pesanti critiche per i ritardi di almeno tre giorni nei soccorsi e per le falle nella gestione degli aiuti. Già a febbraio, era stato limitato l’accesso a Twitter e TikTok per contenere la rabbia dell’opinione pubblica.
L’impatto del terremoto
La tragedia è stata un duro colpo per Erdogan, che deve gran parte della sua fortuna elettorale alle promesse fatte dopo il terremoto del 1999 a Izmit. La cattiva gestione dell’emergenza ha minato il consenso di cui generalmente ha goduto in alcune province dell’area. Solo in quella di Kahramanmaraş, una delle più colpite dal terremoto, Erdogan ha preso i tre quarti dei voti nelle politiche del 2018.

Il rischio di un contraccolpo elettorale ha spinto l’AKP a promuovere una lettura diversa del disastro, puntando a dipingere l’attuale presidente come l’unica persona in grado di fare qualcosa di concreto per le zone devastate. Anche in virtù dei suoi legami con le grandi aziende di costruzioni, nelle ultime settimane Erdogan ha annunciato grandi piani di ricostruzione. “Guariremo completamente le ferite causate dal disastro in 11 province e nelle città vicine, costruendo un totale di 650.000 nuove case, 319.000 delle quali saranno consegnate in un anno”, ha dichiarato recentemente.
La sfida delle elezioni dopo il sisma
Durante la sua visita ad Hatay, è diventato virale un video in cui Erdogan lanciava giocattoli da un bus per i terremotati. A oggi il malcontento resta alto, ma andare a votare potrebbe non essere così semplice per i cittadini sfollati. Erdogan ha deciso di non posticipare le elezioni a giugno, e organizzare le urne dopo un tale disastro si presenta come una sfida logistica non indifferente. Le difficoltà riguardano principalmente la sicurezza dei seggi, i trasferimenti e la corretta registrazione degli elettori nelle liste. La Commissione elettorale suprema della Turchia ha effettuato sopralluoghi dopo il sisma per garantire il diritto di voto a tutti, ma alcune Ong restano preoccupate che possano verificarsi irregolarità. Per questo, si stanno muovendo per garantire maggiore trasparenza: l’organizzazione Oy ve Ötes, che ha partecipato a otto elezioni dalla sua fondazione nel 2014, sta radunando 100 mila volontari per presidiare i seggi in tutto il Paese. Anche il Consiglio d’Europa ha annunciato che invierà 40 delegati per osservare il voto del 14 maggio.

Il clima è già teso sulla strada alle urne
L’esito delle elezioni è in bilico. E, secondo alcuni esperti, in caso di sconfitta Erdogan potrebbe non accettare i risultati. Già nel 2019 i funzionari della Commissione elettorale suprema avevano accolto il suo ricorso annullando la vittoria alle amministrative di Istanbul del candidato di opposizione Ekrem Imamoglu, e imponendo agli elettori un ritorno alle urne. “Dobbiamo sicuramente mettere in conto che in caso di sconfitta Erdogan non resterà in silenzio e tenterà la via dei ricorsi”, ha spiegato Chiriatti. “Anche in virtù del fatto che non si tratta di elezioni eque e libere, e che Erdogan ha influenza sul potere giudiziario”.
Intanto, la campagna elettorale si è aperta con momenti di tensione. Il 31 marzo, una persona non ancora identificata ha sparato contro la sede della presidenza provinciale di Istanbul del Partito Buono. Anche il 6 aprile, esponenti del CHP hanno denunciato un attacco armato durante la notte contro una delle sedi del loro partito, nel quartiere di Sariyer. La motivazione degli agguati non è ancora chiara, anche alla luce dei mal di pancia in seno alle opposizioni per via delle candidature. Quel che è certo è che il clima politico non è disteso: “Aspettiamoci colpi di scena”, ha detto Chiriatti.