“Caro Presidente Obama, avevo parlato di arresto di Fethullah Gulen e di un suo ritorno in Turchia, ma lei non mi ha ascoltato. Vi invito ancora una volta, anche ora dopo un tentativo di colpo di stato, ad estradare questa persona” dichiara il Presidente della Repubblica turca Recep Tayyip Erdogan di fronte ad una folla di sostenitori, a poche ore dal fallito golpe militare.Per approfondire: Turchia, perché il golpe è fallitoUn messaggio piuttosto chiaro: il Paese, ponte fra Europa e Medio Oriente, è consapevole di essere un alleato strategico della Nato e, dunque, chiede di essere ascoltato ed assecondato. In ballo c’è il destino di Fethullah Gulen, religioso che da oltre trant’anni vive nel nord est americano. Oppositore e voce fuori dal coro, più che per le sue prediche e per gli eventuali seguaci (Gulen nega di avere contatti con fedeli nel suo paese d’origine), Fethullah è una voce fuori dal coro ed estremamente critica che, alla notizia del fallito colpo di mano, ha puntato il dito contro lo stesso Erdogan, sostenendo abbia operato di propria iniziativa per rafforzare il suo potere.È ancora presto per fare ipotesi sulle responsabilità dell’azione eversiva; lo stesso segretario di Stato John Kerry ha risposto all’esecutivo turco che gli Stati Uniti chiedono prove certe sulla colpevolezza di Fethuallah Gulen prima di firmare un mandato di estradizione. Tuttavia, non è certo una novità che il knock out del golpe abbia rafforzato il potere di Erdogan: proprio in queste ultime ore, infatti, sono stati messi agli arresti militari e non, partecipanti o sospetti all’azione, con Ankara che annuncia mandati di cattura per più di 2500 magistrati.Si tratterebbe, dunque, di un ulteriore irrigidimento della politica interna, che segue solo di due mesi la condanna dei reporter che indagarono sul presunto traffico illecito fra le autorità turche e l’Isis. Inoltre, la linea di condotta ambigua del paese nella lotta al Califfato islamico, i sospetti di compravendita di petrolio con gli uomi di al Baghdadi, i continui bombardamenti contro le milizie curde, a loro volta schierate contro il Daesh; e ancora, gli attriti con la Russia (l’abbattimento del cacciabombardiere in novembre e le divergenze sul futuro della Siria) sono elementi sufficienti a motivare il ricorso ad un “finto” golpe per rafforzare gli equilibri interni e per rilanciare la credibilità internazionale della nazione.Per approfondire: Turchia, cinquant’anni di colpi di StatoCome sopra citato, poi, la pretesa di estradare Gulen è un atto che tende a legittimizzare la forza e la determinazione di un governo che intende mantenere il ruolo centrale della Turchia in Medio Oriente e nell’area del Mar Nero.D’altronde, la situazione internazionale gioca a favore di Ankara: l’Europa, scossa dal pericolo attentati e dall’allarme migrazione, ha bisogno di una Turchia capace sia di arginare il flusso migratorio, sia di controllare l’attività di gruppi terroristici. Necessità che non è sfuggita ad Erdogan e che non fa altro che confermare la centralità del suo Paese nella gestione delle emergenze provocate dalla guerra civile siriana e dall’entrata in scena, due anni fa, dell’Isis.Essere unico interlocutore fra europei e Medio Oriente: è forse questa l’ambizione di un leader che, come ricorda il professor Renato Risaliti (Docente emerito di Storia dell’Europa orientale dell’Università degli Studi di Firenze) “insegue il sogno del “panturchismo”, (unità del mondo turanico) in una prospettiva che, chiaramente, si scontra con quella russa; Putin, infatti, si è espresso a favore della creazione di un Grande Kurdistan stato che, inevitabilmente, finirebbe per limitare la sfera d’influenza di Ankara. In questa direzione di contenimento va anche la scelta del Kazakistan e del Kirghizistan di aderire all Unione economica euroasiatica (UEE)”.Contenimento che si manifesta, possiamo aggiungere, anche nel legame fra la vicina Siria e Mosca: la recente riconquista dei governativi di Kinsabba e del Nord di Aleppo allontanano le speranze turche di una vittoria del fronte ribelle. Ma se gli esiti della guerra sono incerti, certo è che i russi non lasceranno mai le basi di Latakia e Tartus, continuando ad esercitare la propria influenza sul contesto socio- politico siriano e sul Mediterraneo sud orientale.





Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.