Quattordici attentati, un tentato colpo di Stato, una guerra – quella in Siria – che non vede fine e un’economia che arranca. Il 2016 è stato un anno drammatico per la Turchia. Il 2017 potrebbe essere quello della svolta. Il 16 aprile, infatti, si terrà un importante referendum sulle riforme volute da Recep Tayyip Erdogan. Un voto che determinerà non solo il futuro del Paese, ma anche quello del “Sultano”. In poche parole, la partita che si gioca è questa, come riporta l’Agi: «Se Erdogan vincerà, assumerà poteri esecutivi, trasformandosi formalmente in “capo dello Stato”, una carica che nella sostanza racchiude poteri e funzioni del presidente della Repubblica e del capo dell’esecutivo, nominerà il governo, potrà sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni, nominare giudici della corte costituzionale e membri del Consiglio Superiore della Magistratura, riprenderà le redini del partito, a cui la costituzione stessa lo ha obbligato ad abdicare una volta divenuto presidente della Repubblica, ma soprattutto estenderebbe il suo orizzonte politico, azzerando i tempi del mandato in corso e proiettandosi verso il 2029».[Best_Wordpress_Gallery id=”443″ gal_title=”Apertura della campagna del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo del presidente turco Recep Tayyip Erdogan”]Concretamente, Erdogan diventerebbe il padre e il padrone della Turchia. Ma la vittoria non è così scontata, nonostante il “Sultano” stia facendo promesse elettorali a destra e a manca. Proprio ieri, per esempio, il presidente turco ha detto: «Se il “sì” vincerà saranno costruite nuove autostrade, treni ad alta velocità e aeroporti». Questa strategia in passato ha permesso ad Erdogan non solo di diventare sindaco di Istanbul nel 1994, ma anche di aumentare il proprio consenso popolare. Si possono dire tante cose di Erdogan, ma non che non sappia parlare al Paese, giocando anche un po’ con la pancia dell’elettorato. Il mantra del partito del Sultano – l’Akp – è: «Chi vota no? Chi ci attacca perché vuole dividere il nostro territorio e chi vuole sovvertire l’ordine del nostro Paese». Una questione di sicurezza, quindi. Il Paese oggi vive lo spettro dello stato di emergenza, proclamato il 22 luglio scorso, a una settimana dal golpe, che ha proibito le manifestazioni di piazza e le aggregazioni. Più di 100mila tra militari, poliziotti, magistrati, accademici, giornalisti e insegnanti sono stati sospesi o licenziati, mentre procedimenti giudiziari vengono aperti a carico di 35mila persone. L’accusa è di avere legami con la rete golpista di Fetullah Gulen.A maggio, dopo l’abolizione dell’immunità parlamentare, vengono arrestati con l’accusa di terrorismo 10 dei 59 parlamentari filo curdi dell’Hdp, tra cui i due leader e segretari Selattin Demirtas e Figen Yuksekdag. Il primo rischia 142 anni di carcere, la seconda 83. Nel mirino della magistratura finiscono anche decine di amministratori locali del sud est del Paese, un’area a maggioranza curda.[Best_Wordpress_Gallery id=”444″ gal_title=”La vita in Turchia”]Il 2016 si conclude nel peggiore dei modi. Con un attentato alla discoteca Reina, uno dei locali più esclusivi di Istanbul, lo Stato islamico fa 39 morti. La lira turca sprofonda, mentre euro e dollaro registrano valutazioni da record. Nel frattempo l’Akp di Erdogan stringe un’alleanza con il Partito del Movimento Nazionalista, l’Mhp, ovvero i Lupi grigi. Un partito che potremmo definire di estrema destra, panturco e nazionalista. In questo modo il “Sultano” riesce a portare avanti l’approvazione degli emendamenti che trasformano il Paese in una Repubblica presidenziale, con l’abbandono del sistema parlamentare (questo, almeno, fino al prossimo 16 aprile, quando il popolo potrà dire la sua).È in queste condizioni che la Turchia va al voto. Predire l’esito del referendum è attualmente impossibile. Quello che è certo è che la paura e l’incertezza dei turchi rischia di fornire un assist importante ad Erdogan.