È una battaglia che si combatte anche nelle capitali europee quella per i cuori dei turchi, chiamati il prossimo 16 aprile a decidere le sorti di un Paese in bilico tra un presidenzialismo forte, quello di cui Erdoğan ha già dato un assaggio in questi ultimi anni, e un futuro da repubblica ancora parlamentare, pur con una Costituzione come quella attuale, approvata nel 1982 a seguito di uno dei molti interventi militari che hanno segnato la storia della Turchia.

Una battaglia che prosegue senza esclusione di colpi e su toni decisamente eccitati, con strali che da Ankara partono alla volta di Berlino e dell’Aia, andando a colpire Paesi etichettati come “fascisti” e “residui del nazismo”, definiti come legati a logiche “da Terzo Reich”, accusati per la decisione di impedire od ostacolare con decisione le missioni dei ministri del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), spediti a guadagnarsi le simpatie degli indecisi, in un’Europa il cui serbatoio di voti vale quanto quello di una grande città, con un milione e mezzo di elettori soltanto in Germania.

È su più di un fronte che si segnalano scaramucce e su quello olandese — occupato dall’altra parte dalle elezioni imminenti — l’oggetto della disputa si è palesato con l’intenzione del ministro degli Esteri, già al dicastero degli Affari europei, Mevlüt Çavuşoğlu, di tenere un comizio a Rotterdam, per perorare la causa del “sì” e del presidenzialismo esecutivo.

Un boccone indigesto per il primo ministro olandese Mark Rutte, che aveva messo in chiaro di trovare “inaccettabile” la prospettiva di una visita e di ritenere che la “sfera pubblica” del suo Paese non potesse diventare agone politico per la campagna referendaria di un altro Stato, temendo anche che a guadagnarne sarebbe stata la destra di Geert Wilders, già ben piazzata. Una posizione ribadita poi, aggiungendo che Çavuşoğlu non avrebbe ricevuto un “benvenuto” ufficiale da parte delle autorità.

Provocatoria la risposta della Turchia, che aveva promesso “sanzioni” nel caso all’Aia non avessero cambiato idea, o avessero provato a fermare il ministro. E questo hanno ottenuto: un “Altolà” e la revoca del permesso d’atterraggio per l’aereo che avrebbe dovuto portare in Olanda Çavuşoğlu. “Vedremo come i vostri aerei atterreranno in Turchia da oggi in poi”, ha risposto Erdoğan, con toni che non parlano certo di distensione.

Il ministro della Famiglia, Fatma Betül Sayan Kaya, che prometteva di arrivare dalla Germania via terra, aggirando il divieto, è stata fermata in serata dalla polizia, che le ha impedito di entrare in consolato a Rotterdam, mentre venivano autorizzate proteste pro e contro l’arrivo dei politici turchi. Chiuse per ragioni di sicurezza ambasciata e consolato olandesi in Turchia, mentre le autorità ad Ankara invitavano l’ambasciatore, al momento fuori servizio, a “non tornare per un po'” al suo posto.

Protesta pro-Ocalan a Colonia

Che la Turchia fosse sul piede di guerra già lo si era capito nei giorni scorsi, quando una situazione analoga si era proposta con l’Austria e poi con Berlino, aprendo — o per meglio dire acuendo — una crisi che già è sfaccettata e va dalle accuse di spionaggio agli imam turchi in Germania, all’arresto a Istanbul di Deniz Yücel, corrispondente del Die Welt con doppia nazionalità, confermato pochi giorni fa per “propaganda al terrorismo”.

Non è da oggi che Germania e Turchia, pure legate per altre ragioni, sono ai ferri corti. Da tempo Erdoğan tuona contro la Merkel, accusandola di offrire un porto sicuro a membri di organizzazioni terroristiche, siano esse di estrema sinistra o nazionalisti curdi del Pkk, da decenni in armi contro la Turchia. E che l’argomento sia non solo sentito dai vertici dell’Akp, ma divisivo per i turchi di Germania sembra dirlo un articolo comparso sullo Spiegel, che fa luce su un documento inviato dal governo federale alle amministrazioni locali, con cui si mettono al bando 33 simboli legati a “Pkk e sue ramificazioni”, tra i quali c’è anche il volto del leader Abdullah Öcalan.

“Smettano di darci lezioni di diritti umani e democrazia”, ha attaccato ancora Çavuşoğlu martedì, parlando dal balcone della residenza consolare ad Amburgo dopo la revoca — arrivata dalle amministrazioni locali tedesche — del permesso di parlare ai suoi connazionali. “Problemi di sicurezza”, la ragione addotta. Una giustificazione che in Turchia è stata letta in tutt’altro modo, attirando sulla Cancelliera Merkel non solo le critiche di Erdoğan o dell’alleato ultra-nazionalista Bahçeli, ma pure quelle del leader del principale partito d’opposizione, che generalmente critico nei confronti del governo e su posizioni diametralmente opposte per quanto riguarda il referendum, ha questa volta argomentato che “non è mai giusto” impedire che un’opinione sia espressa.

Sono in molti gli analisti convinti che sarà comunque l’Akp a guadagnarci dalle crisi aperte in questi giorni con l’Europa, se non altro in termini di voti e di riscontro da parte dell’opinione pubblica interna. Per Mustafa Akyol, editorialista per quotidiani come il New York Times e l’edizione in inglese del turco Hurriyet, quanto successo in Germania ha fornito “la munizione perfetta a una tecnica propagandistica” che il partito “ha utilizzato in maniera crescente negli ultimi cinque anni”. Un’opinione ribadita anche da Hüseyin Bağcı, docente di Relazioni Internazionali all’Università Metu di Ankara, che di recente, in un’intervista ad Aki-Adnkronos International chiariva: “La Turchia non proverà a ridurre lo scontro o la polarizzazione politica”. Almeno non fino al giorno del referendum.

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