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La situazione economica della Turchia è sempre più confusa, persino paradossale. Quest’anno la Banca centrale ha abbassato a più riprese il costo del denaro innescando massicce vendite sulla lira turca che dallo scorso settembre si è deprezzata di quasi il 40%. Una flessione che ha costretto il ministro delle Finanze Lefti Elvan a rassegnare le dimissioni a inizio dicembre. Al suo posto è arrivato Nureddin Nebasti, un fedelissimo del presidente Erdogan, che ha esordito con un laconico «non ci sono problemi». Parole poco felici. Il giorno dopo la valuta nazionale ha segnato un nuovo record negativo sfondando per la prima volta la soglia di 1 euro per 15 lire e l’inflazione galoppa ormai intorno al 20%.

Turbolenze monetarie che però non sembrano preoccupare il ferrigno Erdogan che prosegue imperterrito sia nelle sue politiche interne (mirando ad una riconferma alle presidenziali dell’anno prossimo) che sul fronte internazionale. Lo conferma l’apertura, il prossimo 17 e 18 dicembre a Istanbul, del terzo summit Turchia-Africa, un appuntamento centrale per rilanciare le ambizioni di Ankara sul continente. La due giorni sul Bosforo sarà occasione per discutere con i leader africani di scambi culturali e cooperazione ma, anche e soprattutto, di aiuti militari, accordi economici e materie prime.

L’attenzione di Erdogan per l’Africa non è nuova, risale infatti al 2005 la sua prima visita ad Addis Abeba e da allora il presidente è tornato nel continente altre 38 volte toccando 28 Paesi con un’ultima tournée proprio ad ottobre in Nigeria, Angola e Togo. Un impegno costante per una proiezione geopolitica che si vuole alternativa, giocando su vecchi sentimenti anti colonialisti e sui nuovi timori per altre (ben più spietate) egemonie, sia al modello occidentale che a quello cinese. Non a caso la chiave d’ogni discorso è la fratellanza — «I popoli africani sono nostri fratelli con i quali condividiamo un destino comune» — oppure, a seconda dei contesti, la comunanza religiosa nell’Islam sunnita. Al netto della retorica identitaria, il vero ferro di lancia sono però le grandi aziende anatoliche specializzate nella costruzione d’infrastrutture o nella gestione dei servizi aeroportuali e marittimi. Grazie a loro (e alla miriade di PMI turche presenti ormai dappertutto) l’interscambio è passato dai 5,3 miliardi del 2003 ai 25,3 odierni. Poco confronto ai 180 miliardi registrati dai cinesi ma sempre numeri significativi e in costante crescita come dimostra l’allargamento del perimetro di Ankara nei paesi subsahariani.

Consolidate le posizioni nel Corno d’Africa — Etiopia, Eritrea, Sud Sudan e Somalia, dov’è operativa la prima base militare sul continente —, ora la Turchia è sempre più presente nell’Africa francofona e, con gran fastidio di Parigi, gli scambi volano: Costa d’Avorio (630 milioni di dollari nel 2020, + 67% in due anni), Burkina Faso (72 milioni nella prima metà del 2021, + 65% rispetto al 2020), Ruanda (81 milioni contro i 34 del 2019).  Nel mirino di Erdogan vi sono poi la Guinea Bissau, il Sud Africa, l’Angola, il Togo, il Ghana, la Sierra Leone, la Nigeria; ovunque holding come Limak, Mapa, Summa o Yenigun stanno costruendo centri commerciali, ospedali, strade, centrali elettriche, stadi e tante moschee. Tra tutte, ad Accra, anche una perfetta replica della Moschea Blu istanbuliota.

La Turchia investe massicciamente anche sulla sponda sud del Mediterraneo, a partire dalla Tripolitania, strenuamente difesa durante la guerra civile libica, e dall’Algeria con un interscambio di ben 3,8 miliardi di dollari. Persino l’Egitto, nonostante le distanze politiche, mantiene con Ankara un volume importante di traffici (4,8 miliardi di dollari). Tanti affari e non solo. Oltre ai legami commerciali, il quadrante nord-africano è importante per altri motivi che, inevitabilmente, riguardano anche l’Italia. L’alleanza con il governo di Tripoli permette alla Turchia di proiettarsi sul Canale di Sicilia, controllare a suo piacimento le migrazioni verso l’Europa, intromettersi nella gestione dei cavi sottomarini mediterranei, insidiare la Grecia e Cipro. Insomma, il completamento di una strategia complessa quanto spregiudicata per riportare, malgrado la fragilità economica e i rischi d’isolamento, la Turchia (e il suo presidente) al centro della scena mondiale.

 

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