Arrivano da Ankara e da Diyarbakır gli ultimi due nomi dei candidati che sfideranno Recep Tayyıp Erdoğan alle prossime elezioni, già ampiamente annunciati dai rispettivi partiti. Si tratta di Muharrem İnce, in campo per il Partito repubblicano del popolo (Chp), la principale forza d’opposizione parlamentare in Turchia, e di Selahattin Demirtaş, il carismatico leader del Partito dei popoli (Hdp) della sinistra filo-curda.
I nomi di İnce (si pronuncia Inge) e di Demirtaş vanno ad aggiungersi a quello di Meral Akşener, la sanguigna leader del Buon partito (centrodestra, nazionalista) e di Temel Karamollaoğlu, candidato dagli islamisti del Partito della felicità (Sp), che già hanno iniziato a raccogliere le necessarie firme a sostegno della loro candidatura. E ovviamente a quello di Erdoğan, scelto dal suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), ma anche dal Partito del Movimento nazionalista (Mhp), un tempo all’opposizione ma da anni ormai stampella della maggioranza in parlamento.
A Erdogan, che si presenta alle elezioni anticipate del 24 giugno come candidato dell’Alleanza popolare (Akp, Mhp e Bbp), le opposizioni hanno rinunciato a opporre un nome unico, trovando però un’intesa per una pragmatica coalizione a quattro teste che potrebbe servire a evitare a due partiti minori l’ostacolo dello sbarramento al 10% e potenzialmente qualora dalla prima fase del voto per le Presidenziali non dovesse emergere un vincitore chiaro. Ma che lascia ufficialmente fuori i filo-curdi, su posizioni difficilmente conciliabili con quelle di alcuni partiti che hanno detto sì all’intesa.
È simbolica la scelta di candidare Demirtaş, in carcere da novembre del 2016 e accusato di terrorismo, come altri otto parlamentari e centinaia di altre persone legate al suo partito. Il politico, che in cella ha scritto un libro di recente tradotto anche in Italia, è stato confermato come volto del Hdp venerdì, in due appuntamenti tenutisi in contemporanea a Istanbul e Diyarbakır, città a maggioranza curda del Sudest turco.
“Demirtaş non è solo il candidato presidente dei curdi, ma degli aleviti, degli armeni, dei turchi, delle donne e dei bambini”, ha detto Pervin Buldan, attuale co-presidente del partito insieme al collega Sezai Temelli, ribadendo così alcuni dei punti cardine dell’azione del Hdp. “Cambiare tutto con te” è lo slogan scelto per la breve campagna elettorale che porterà alle urne il 24 giugno.
Altrettanto simbolico è il gesto che Muharrem İnce ha compiuto questa mattina durante l’assemblea del suo partito. Il candidato repubblicano alla presidenza ha riconsegnato al segretario Kemal Kılıçdaroğlu la spilletta del Chp che per anni ha portato al petto, facendosene appuntare una con la bandiera rossa e bianca della Turchia e giurando qualora vincesse di essere un presidente al di sopra delle parti. Parole non casuali, perché è proprio la possibilità di una presidenza partigiana una delle modifiche introdotte dal referendum costituzionale che nel 2017 il campo erdoganiano ha vinto per pochi punti percentuali e tra accuse di brogli e che gli oppositori denunciano come un ulteriore passo verso la definitiva trasformazione del Paese in un totalitarismo.
In molti hanno ricordato come Muharrem İnce, che fa parte dell'”ala sinistra” del Chp, abbia sempre votato contro l’abolizione dell’immunità per i parlamentari del Hdp, sostenendo che prima o poi sarebbe toccato anche al suo partito, alfiere delle idee del padre della Turchia moderna Kemal Atatürk. Fedele a quanto detto in passato, ha promesso di trasformare l’Aksaray, il lussuoso palazzo presidenziale che Erdoğan ha voluto per sé, in un centro studi. “Lo consegnerò agli studenti migliori di questa terra”, ha tuonato dal palco, proclamando una mobilitazione che durerà fino al giorno del voto.
La strada dell’opposizione è pavimentata di speranze, ma è tutta in salita. Alcuni sondaggi dicono di un Erdoğan che può faticare a superare il 50% che lo riconfermerebbe senza secondo turno, ma resta un politico apprezzato e dalla sua ha una situazione che tutto è tranne che garanzia di una sfida ad armi pari. Per molti osservatori l’appuntamento elettorale è solo una facciata: il risultato è già deciso.