Tunisia e Algeria, principali partner dell’Italia in Nord Africa dopo il collasso della Libia, sono sospese fra il tramonto di un’era e l’alba di un nuovo inizio. La Tunisia eleggerà fra pochi giorni il suo primo capo dello Stato che non proverrà dai ranghi del passato regime, mentre l’Algeria balla pericolosamente tra la deriva autoritaria, la svolta islamista o la rivoluzione anti-sistema. La stabilità di questi due paesi dovrebbe essere una priorità per il nostro Paese per almeno tre motivi: flussi migratori, rischio terrorismo e sicurezza energetica. Stando ai dati del Viminale, tunisini e algerini figurano al primo (1.788) e al quarto (640) posto fra i migranti sbarcati illegalmente in Italia al 20 settembre. Numeri che però non tengono conto degli sbarchi autonomi non registrati che portano in Italia veri e propri “fantasmi” che non chiedono asilo politico e non vogliono farsi identificare.
Quantificarli è impossibile: le stime vanno da qualche centinaio a poco più di un migliaio. Eppure sono proprio loro, potenzialmente, a creare maggiori problemi di sicurezza connessi al pericolo terrorismo. Vale la pena ricordare che Algeria e Tunisia ospitano anche il tracciato del gasdotto Transmed (noto anche come gasdotto Enrico Mattei), la conduttura di 2.200 chilometri che porta in Italia il metano algerino arrivando fino a Mazara del Vallo. L’Algeria è il nostro attuale secondo fornitore di gas, subito dopo la Russia, e un partner strategico imprescindibile non solo per l’Italia, ma anche per tutta l’Europa.
La Tunisia rompe con il passato
Con la scomparsa dell’ex presidente tunisino Zine el Abdine Ben Ali, morto a 83 anni nel suo esilio dorato a Gedda, in Arabia Saudita, la Tunisia chiude un capitolo della sua storia. Se n’è andato, infatti, il secondo presidente della Tunisia dopo Habib Bourguiba e il primo leader caduto a seguito delle proteste della Primavera araba. La sua morte segue di poche settimane quella di uno dei suoi successori alla guida della Tunisia, Beji Caid Essebsi, figura di riferimento del fronte laico nazionale. Un fotomontaggio che circola sui social network sintetizza con ironia la fine di un ciclo, mostrando Ben Ali in cielo con le valigie ancora in mano mentre guarda Bourguiba ed Essebsi che giocano a scacchi. In un giorno ancora da scegliere (il 29 settembre, il 6 ottobre e il 13 ottobre le date papabili) gli oltre sette milioni di elettori tunisini saranno chiamati a scegliere un nuovo presidente tra Kais Saied e Nabil Karoui, due candidati diversissimi per storia e formazione ma entrambi “di rottura”. Chiunque vincerà potrebbe giocare un ruolo di primo piano anche in chiave delle consultazioni parlamentari che dovrebbero svolgersi il 6 ottobre – quindi in concomitanza con una delle date prescelte per il ballottaggio delle presidenziali, di fatto un election day. Il calendario elettorale prevedeva che si votasse prima per l’Assemblea dei rappresentanti del popolo (il parlamento monocamerale tunisino) e solo dopo per il presidente. La morte di Essebsi aveva ribaltato le carte in tavola, ma adesso potrebbe riproporsi lo scenario iniziale: stando agli ultimi rumors il ballottaggio potrebbe infatti tenersi il 13 ottobre, quindi dopo che sarà nota la composizione del parlamento.
Karoui era dato tra i favoriti al primo turno, grazie a un singolare “pastone” di populismo, assistenzialismo e propaganda mediatica divulgata attraverso la sua emittente privata Nessma Tv. Il rocambolesco arresto in autostrada il 23 agosto scorso per sospetta frode fiscale ha inficiato le possibilità di apparizione del tycoon tunisino, ma anche favorito la narrazione del benefattore che voleva scardinare il sistema e che è stato messo fuorigioco con un arresto politico. C’è inoltre la possibilità, pazzesca ma reale, che Karoui possa diventare il primo capo di Stato al mondo ad essere eletto da detenuto in attesa di giudizio. Neanche a Nelson Mandela riuscì un’impresa di questa portata: fu liberato nel 1990 ma venne eletto solo quattro anni dopo. Finora i giudici hanno respinto ogni richiesta di scarcerazione del politico tunisino, nonostante le proteste degli osservatori internazionali per una situazione oggettivamente paradossale.
Karoui è arrivato secondo al primo turno delle elezioni presidenziali dello scorso 15 settembre con il 15,58 per cento dei voti (525.517) dopo Kais Saied, giunto al primo posto con il 18,40 per cento delle preferenze (620.711). Classe 1958, giurista di orientamento conservatore sui diritti civili e promotore di una profonda riforma della Costituzione in senso parlamentare, Saied ha intercettato soprattutto il voto dei giovani tra i 18 e i 25 anni d’età. Come sottolinea Agenzia Nova, il candidato 61enne deve la sua sorprendete vittoria alla “generazione Z”, ovvero agli elettori che al momento della Rivoluzione dei gelsomini avevano tra i 10 e i 17 anni. La peculiare ascesa del professore universitario dal carattere mite, protagonista di una campagna elettorale “low-cost”, si spiega probabilmente con il declino dei partiti tradizionali, sia di ispirazione laica che islamista, che pagano una crisi economica e sociale che morde ancora. La democrazia tunisina è in pieno fermento e lo conferma il dato sull’affluenza: è vero che solo il 48,98 per cento degli aventi diritto si è recato alle urne (-13,9 per cento rispetto al 2014), ma solo perché gli scritti ai registri elettorali sono molti di più. Dal dato secco sui voti, in realtà, emerge un aumento della partecipazione nel 2019 (3.465.184 voti) rispetto a cinque anni fa (3.339.666).
L’Algeria verso nuove elezioni
La crisi in Algeria scoppiata il 22 febbraio del 2019 e che continua ancora oggi è la punta di un iceberg avvistato molto tempo fa. Il primo, evidente campanello d’allarme era stato l’ictus che nel 2013 aveva colpito Abdelaziz Bouteflika, presidente in carica dalla fine degli anni Novanta, richiamato in patria dall’estero per guidare il Paese dopo la tragica guerra civile nota come Decennio nero. Immobilizzato su una sedia a rotelle e costretto a parlare al microfono per farsi sentire dai pochi dignitari stranieri che riceveva, Bouteflika era evidentemente un pupazzo in mano a “le Pouvoir”, il sistema politico, economico, militare e d’intelligence che ha governato il Paese negli ultimi decenni. Tutti sapevano, ma nessuno ha fatto niente per cambiare una situazione sempre più insostenibile. In altre parole, in Algeria nessuno ha favorito quel “golpe medico” che invece portò Ben Ali a scalzare Bourguiba dal potere in Tunisia senza versare una goccia di sangue. “Le Pouvoir” ha tentato fino all’ultimo di salvare le apparenze, ma il popolo è sceso in piazza per gridare “Dégagé, fuori tutti”.
All’inizio i militari hanno assecondato le richieste, facendo piazza pulita di politici, imprenditori e generali in pensione. Ma i manifestanti hanno alzato il tiro chiedendo le dimissioni del capo di Stato maggiore dell’Esercito, Ahmed Gaid Salah. Non va bene nemmeno la nuova Istanza elettorale indipendente, considerata troppo vicina al passato regime. La pazienza degli apparati militari algerini sta gradualmente lasciando spazio alla repressione. Il rischio di una vittoria di un candidato islamista alle elezioni presidenziali del prossimo 12 dicembre potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso, facendo ripiombare l’Algeria direttamente nell’incubo degli anni Novanta. Uno scenario da evitare come la peste per l’Italia che ha appena rinnovato gli accordi per l’acquisto di gas algerino fino al 2027. Sono intanto già dieci le candidature registrate per le elezioni presidenziali fissate per il prossimo 12 dicembre: molte più delle due misere candidature depositate lo scorso giugno per le consultazioni di luglio che non si sono mai tenute. E’ ancora presto per dire se la “rivoluzione del sorriso” porterà dei cambiamenti reali nel più vasto Paese del continente africano oppure se, come nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”.