“Stiamo abbattendo l’Isis. Lasceremo la Siria molto presto. Lasciamo che siano altri ad occuparsene ora. Il 100 percento del Califfato, come lo chiamano, sarà nostro. Lo riconquisteremo come territorio. Velocemente”. Così il presidente americano Donald Trump durante un discorso sulle infrastrutture in Ohio. Per il tycoon il conflitto siriano ereditato dall’amministrazione Obama è sempre stato un ginepraio. In campagna elettorale, Trump aveva più volte detto di abbandonare il Paese mediorientale. Lettera morta, almeno per il momento. Anche perché nel frattempo Trump aveva cambiato il suo pensiero bombardando – dopo l’attacco chimico di Khan Shaykhun, una base aerea siriana e, pochi mesi fa, alcuni soldati di Damasco nei pressi di Deir Ezzor.
La dichiarazione di Trump, se da una parte apre una parentesi di speranza in Siria, dall’altra pone importanti interrogativi. Il primo: chi riempirà il vuoto lasciato dagli Stati Uniti? Una risposta a questa domanda l’ha fornita il presidente francese Emmanuel Macron che, dopo aver incontrato una delegazione delle Forze democratiche curde (Sdf), ha ribadito il sostegno di Parigi ad Ankara, sottolineando però “l’impegno delle Sdf a non avere alcun collegamento operativo con questo gruppo terroristico (il Pkk Ndr) e a condannare qualsiasi atto di natura terroristica da qualunque luogo provenga”. Macron avrebbe anche promesso – secondo quanto fa sapere Khaled Eissa, membro del Partito dell’Unione democratica – di inviare più soldati nel nord della Siria.
Dalla crisi tra il Libano e l’Arabia Saudita, culminata con le dimissioni poi ritirate di Saad Hariri, Macron si è presentato come un uomo chiave in Medio Oriente, capace di mediare tra le parti (ovviamente per portare avanti gli interessi di Parigi dell’area). E ora ci riprova, dopo la politica fallimentare portata avanti dal suo predecessore, François Hollande.
Il lavoro di Macron non sarà semplice, tanto che il ministero degli Esteri francese si è detto perplesso sul possibile operato del presidente in Siria. Per Parigi, infatti, non si tratta solamente di inserirsi ancora più in profondità in un conflitto estremamente complesso; significa farlo in una situazione disastrosa ereditata dall’ambigua strategia americana in Siria, dove si hanno da una parte i turchi che sono pronti ad arrivare a Manbij e che vogliono garanzie molto chiare e, dall’altra, i curdi, sostanzialmente traditi dagli Stati Uniti, che potrebbero aver imparato la dolorosa lezione: non ci sono amici. Nel mezzo, c’è un esercito siriano che, con i suoi alleati, sta riprendendo il controllo di molte aree ribelli e che non sembra affatto intenzionato ad accettare altre truppe straniere sul suo territorio.
La Turchia ha già fatto sapere di non avere alcuna intenzione di accettare l’intermediazione francese capace di garantire un accordo con i curdi. Recep Tayyip Erdogan ha infatti dichiarato: “Non abbiamo bisogno di un mediatore. Da quando la Turchia si siede a un tavolo con organizzazioni terroristiche?”. Il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin, ha inoltre scritto su Twitter: “Rifiutiamo ogni sforzo per promuovere ‘dialogo’, ‘contatto’ o ‘mediazione’ tra la Turchia e quelle organizzazioni terroristiche “.
Questo per dire che questo passaggio di consegne, se avverrà, potrebbe avere un prezzo molto alto. Nella geopolitica non esistono spazi vuoti: quando una potenza lascia, un’altra è pronta a subentrarvi. E questa fase di passaggio non è mai foriera di stabilità. Si tratta di un cambiamento di leadership o di riequilibrio del potere che, di solito, comporta anche cambiamenti dei rapporti di forza degli alleati sul campo. E in questo momentaneo vuoto non è detto che sia solo la Francia a esserne coinvolta.
La scommessa di Macron, se vinta, può dare un ottimo impulso alla sua idea di rendere la Francia una potenza riconosciuta sui vari scacchieri internazionali. E gli Stati Uniti, impegnati in una sorta di ritirata strategica da alcuni settori chiave del mondo, ne sono tutto sommato lieti. Non possono abbandonare di punto in bianco una regione dove sono coinvolti da molti anni. Ma possono farlo, gradualmente, se convinti che altri alleati, tendenzialmente affidabili, possano assumerne gli oneri.
Questo concetto è stato espresso più volte dall’amministrazione Trump in vari ambiti della strategia americana. Gli Usa non possono più fare da guardiani degli alleati, ma vogliono che gli altri si impegnino attivamente. O finanziando di più la Nato o subentrando nei conflitti al loro posto, quando lo ritengano necessario. Chi parla di Stati Uniti che abbandonano i loro piani egemonici, deve essere molto cauto. Se gli Usa iniziano a ritirarsi, non significa necessariamente che si stiano disinteressando del mondo. Stanno solo rimodulando il loro intervento. E le altre potenze sono pronte a sfruttare questo vuoto.