La telefonata distensiva tra Trump e il presidente cinese Xi Jinping, preceduta dalla notizia dell’esistenza di un precedente scambio epistolare tra Washington e Pechino, chiude una pericolosa escalation tra le due superpotenze. Che era stata innescata da un’altra telefonata, questa volta alquanto improvvida, fatta del neopresidente americano alla sua omologa di Taiwan, Tsai Ing-wen.Una conversazione telefonica che era suonata a Pechino come un’aperta provocazione, dal momento che i dirigenti taiwanesi da sempre contestano la legittimità dei loro omologhi pechinesi, cosa che rappresenta per il Dragone una sfida costante.L’annosa controversia tra Pechino a Taipei aveva trovato la sua prima ricomposizione agli inizi degli anni ’90, attraverso la formula magica “Una sola Cina”. Una convergenza parallela riuscita: i contendenti, in contrasto su tutto, si erano ritrovati però d’accordo sul riconoscere l’esistenza di una sola entità nazionale cinese.Formula magica quanto ambigua, che consentiva a Pechino di continuare a immaginare Taipei come parte della Cina popolare, e a Taipei di continuare a coltivare illusioni revansciste riguardo l’intero territorio cinese.Il successo della formula sta quindi nella sua intrinseca ambiguità. Ed è venuta buona anche stavolta per appianare il dissidio che si era aperto tra Trump e Xi Jinping. I due, infatti, si sono detti pronti al dialogo nell’interesse delle rispettive nazioni accettando come dato incontrovertibile l’esistenza di “Una sola Cina”.In realtà il contrasto tra Pechino e Trump è ben più ampio della controversia legata al destino della piccola Taiwan. Ed era emerso già nel corso della campagna elettorale americana, durante la quale il tycoon aveva più volte ribadito la necessità di porre un freno all’aggressività commerciale asiatica per rilanciare l’industria nazionale.Eletto, è stato conseguente, cancellando subito il Tpp ed eliminando così l’area di libero scambio del Pacifico sulla quale si fondava la fortuna dei prodotti commerciali asiatici in America. Una decisione necessaria a quanto si era riproposto ma non sufficiente.Per comprenderlo basta ricordare che in realtà il Tpp non era solo un trattato commerciale basato sui dettami della globalizzazione. L’amministrazione Obama l’aveva, infatti, concepito in chiave geopolitica: si trattava cioè di creare una fascia di contenimento attorno a Pechino. Che infatti ne era stata esclusa.Così l’eliminazione del Tpp, se attutisce parte della concorrenza asiatica, lascia però aperta le querelle con il Dragone d’Oriente, la cui concorrenza commerciale resta per Trump un problema da arginare, come lo è stato per il suo predecessore.Inoltre l’espansione dell’area di influenza geopolitica di Pechino sull’Asia, in particolare le sue pretese sul mar cinese meridionale, continuano a essere percepite da diversi ambiti americani come una sfida inaccettabile ai propri interessi globali.Rispetto a tali questioni Trump sembrava orientato a spingere sull’acceleratore, minacciando di porre pesanti dazi alle merci cinesi e di rilanciare in chiave ancora più bellicosa gli accordi politici con gli Stati asiatici (che percepiscono l’espansione cinese come una minaccia).La realtà si è rivelata più complessa delle asserzioni elettorali: la denuncia del Tpp ha infatti aperto nuovi spazi di manovra al Dragone e ha allarmato gli alleati asiatici di Washington, i quali temono che il nuovo Protezionismo americano li privi anche dello scudo militare statunitense sul quale avevano puntato tanto nel recente passato.Non solo: i consiglieri di Trump sanno bene che imporre dazi unilaterali a una nazione che possiede tanta parte del Tesoro americano può non essere un’idea geniale.Come di complessa gestione appare tenere insieme la ricerca di un dialogo con Putin, punto fermo del programma di Trump, con una politica assertiva nei confronti della Cina, stante che Mosca e Pechino negli ultimi anni hanno costituito un asse geostrategico che entrambi reputano essenziale alla loro sopravvivenza (a Pechino necessita la forza militare russa e a Mosca il denaro cinese).A Trump si addicono i Muri. Come quello al confine messicano. Questa determinazione non nasce solo dall’intenzione di frenare i flussi migratori e da esigenze di sicurezza (peraltro tutte idee da verificare), ma da una ragione altra e molto più significativa, ancorché simbolica.L’erezione di un Muro, infatti, per il nuovo presidente degli Stati Uniti serve a rimarcare quel rifiuto della globalizzazione che gli ha guadagnato tanti consensi. Serve cioè a riaffermare, contro l’indefinito spazio geografico della globalizzazione, l’importanza dello Stato nazione. Il Muro segna, delimita, i confini dell’Impero.Da qui l’esigenza di erigere un Muro anche sul Pacifico. Un Muro stavolta esclusivamente simbolico, fatto non di mattoni come quello messicano, ma di Dazi (con la d maiuscola).Trump lo erigerà, perché necessario sul piano simbolico in chiave anti-globalizzazione. Ma tale decisione dovrebbe essere modulata tenendo presente appunto la volontà di riallacciare un rapporto con Putin, di non perdere alleati preziosi in Asia e di non innescare conflitti non gestibili, militari o commerciali che siano, con la Cina.Insomma, per alzare il Muro del Pacifico senza subire contraccolpi funesti serve una buona misura di pragmatismo, necessario peraltro a gestire le ambiguità proprie del quadrante asiatico (che non si limitano solo alla problematica Cina-Taiwan).La conversazione telefonica con il presidente cinese sembra indicare che in Trump le ragioni del pragmatismo abbiano prevalso su quelle simboliche. È un segnale di buon auspicio, sotto diversi profili.

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