Il licenziamento del capo dell’Fbi James Comey da parte di Donald Trump ha innescato una tempesta politico-mediatica che non si placherà facilmente, anzi andrà a montare.L’accusa che viene mossa al presidente è quella di aver vinto le presidenziali grazie all’aiuto dei russi, che avrebbero azzoppato Hillary Clinton rivelando, grazie ai loro hacker, i segreti imbarazzanti contenuti nelle mail sue e del suo partito,Ad oggi tale accusa è ancora aleatoria, anche se ha già travolto un membro dello staff di Trump – Michael Flynn, di cui sono stati provati contatti ritenuti indebiti con l’ambasciatore russo in america – e toccato altri personaggi prossimi al presidente. Una caccia alle streghe che pure non riesce a concretizzarsi e soprattutto non riesce a costringere in un angolo il cinghialone, Trump appunto.Seppur anche poco stringente, il russiagate è al centro della politica americana. E impegna la commissione intelligence del Senato e l’Fbi, che stanno conducendo inchieste parallele. L’accusa mossa a Trump è legata a tali inchieste: avrebbe licenziato Comey per insabbiare le indagini.Bizzarro il caso Comey: solo alcuni giorni fa la Clinton lo aveva accusato di aver condizionato le elezioni, avendo rivelato che l’Fbi stava indagando su di lei (anche se subito dopo si era corretto spiegando che era tutto a posto). Oggi è diventato un’icona liberal, vittima di un complotto volto a chiudere il russiagate.Al di là della verità o meno delle accuse rivolte a Trump, è evidente che in America si sta consumando uno scontro politico all’ultimo sangue. Le forze che hanno perso le presidenziali vogliono ribaltare il risultato, riprendersi il potere che gli è stato sottratto dalla variabile Trump.A contrastare Trump non sono solo i membri del partito democratico, che tra l’altro hanno poca presa sugli apparati (essenziali in un conflitto del genere); piuttosto i neocon, che invece di potere in tali ambiti ne hanno molto e vedono il presidente smarcarsi giorno dopo giorno dal loro abbraccio mortale.Trump infatti non risponde a loro. Non ne è succube, come fu per George W. Bush, e non ne è pesantemente condizionato, come è accaduto per Barack Obama, in particolare nell’ultimo periodo (forse per farsi perdonare l’accordo sul nucleare iraniano, inviso a tale ambito). Trump si è smarcato e ha impostato la politica estera americana su direttrici diverse dai loro desiderata.È stato evidente ieri, quando, nel pieno della tempesta scatenata dal caso Comey, ha incontrato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e Henry Kissinger.LAPRESSE_20170510205830_23053002Due visite più che significative: la prima perché indica che Trump non si sta facendo influenzare dal russiagate, agitato anche per scavare un solco incolmabile tra Washington e Mosca; la seconda perché Kissinger è da sempre fautore di una politica estera basata sulla realpolitik. Un’impostazione opposta alle follie esoteriche dei neocon, per le quali la realtà non esiste se non come un qualcosa di informe da superare e plasmare secondo la propria ideologia religiosa.È sempre più evidente che il vecchio saggio della politica americana è protagonista di un dialogo sottotraccia per conto di Trump tra Washington, Mosca e Pechino (dialogo del quale abbiamo dato conto: vedi Piccolenote su Russia – e vedi Piccolenote su Cina)Un ruolo che può ricoprire anche perché Trump si sta appoggiando su generali altrettanto realisti, Henry McMaster, consigliere per la sicurezza nazionale, e James Mattis, che gli garantiscono una certa presa sugli apparati militari e di intelligence, e quindi una certa libertà di manovra.Sia chiaro: né Kissinger né i generali in questione sono pacifisti della prima ora. Si tratta di uomini votati alla causa degli Stati Uniti e al suo ruolo di potenza globale.Ma il realismo che gli è proprio gli consente di vedere il limite delle prospettive dei neocon: la follia di tali ambiti non consuma solo quanti contrastano la proiezione globale della loro ideologia esoterica, ma consuma anche, in parallelo, gli Stati Uniti d’America.Questo lo scontro che sta deflagrando negli Usa, e che avrà ripercussioni globali. «Dobbiamo guardare avanti. Penso che dovremo formare una commissione parlamentare speciale e molto selettiva per indagare sulle attività della Russia. Qualcosa di simile a ciò che si fece con il Watergate». Così John McCain, senatore repubblicano che da tempo si fa portavoce dei neocon, al Corriere della Sera dell’11 maggio. Dove l’evocazione del Watergate – lo scandalo che portò alle dimissioni di Nixon – è una palese dichiarazione di guerra.