La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi dello scorso mese di novembre ha segnato l’ingresso al vertice delle istituzioni di Washington di un uomo che ha fatto della sua rottura con i tradizionali apparati di potere la forza della sua campagna; la composizione stessa dell’equipe di governo dell’amministrazione Trump segnala la volontà di operare uno strappo con determinati centri di potere e organismi burocratici.Una volta giunto nello Studio Ovale, in ogni caso, Trump si è trovato a dover mediare con i tradizionali centri di potere, con gli “apparti” che tanto a lungo hanno condizionato l’azione delle precedenti amministrazioni: con i Congressmen della maggioranza bicamerale repubblicana i rapporti sono stati sinora sotto controllo, fermo restando alcuni scontri su determinate prese di posizione del Tycoon come le accuse di wiretaping rivolte a Barack Obama, mentre maggior fortuna Trump ha avuto con i rappresentanti dell’establishment militare, destinati ad essere ampiamente foraggiati dal piano di espansione del budget federale destinato alle forze armate.L’apparato dei servizi segreti e lo “Stato Profondo” ad esso annesso, un ramificato sistema di relazioni e rapporti multilaterali che pervade in profondità il mondo politico, investigativo, burocratico e militare statunitense, si è sin dall’inizio mostrato apertamente restio all’ascesa di Trump: come ricordato da Roberto Vivaldelli in un articolo pubblicato il 21 gennaio scorso per Gli Occhi della Guerra, la Central Intelligence Agency (Cia) si è sin dall’inizio dimostrato l’organo più refrattario a un maggiore controllo politico-istituzionale sul suo operato. Vivaldelli ha citato le parole di Paul Craig Roberts, secondo il quale “Trump ora vuole una politica mondiale senza l’influenza della Cia”: influenza che appare ora più che mai pervasiva e inquietante mano a mano che vengono alla luce nuovi dettagli sul programma di spionaggio svelato da WikiLeaks, influenza a lungo funzionale agli interessi del gruppo di potere spiazzato dall’elezione di Trump.Mentre da mesi i servizi segreti statunitensi sono focalizzati sul famigerato Russian Hacking, di cui cercano la (molto probabilmente inesistente) “pistola fumante”, le rivelazioni del team di Assange gettano nuove ombre sull’operato della Cia nel corso degli ultimi anni, sulla pervasività del programma di spionaggio, sulle possibili responsabilità dell’amministrazione Obama e sul ruolo dell’ex direttore John Brennan, già colpito da accuse al vetriolo da parte di Trump poco prima del suo insediamento.Lo scontro tra Trump e lo “Stato Profondo” è, in primo luogo, frutto di una crisi di sfiducia reciproca ma, al tempo stesso, riflette la percezione, da parte di determinati apparati di potere, del concreto rischio di una perdita di influenza sulla “grande strategia” di Washington, che organizzazioni come la Cia o la Nsa hanno in continuazione assecondato e influenzato producendo rapporti accomodanti (come nel caso della guerra all’Iraq del 2003) o mettendo in atto operazioni di spionaggio e controllo su larghissima scala, molte delle quali sono venute in emersione negli ultimi anni. Luca Mainoldi, nel numero di Limes di dicembre, ha scritto inoltre che all’interno dello stesso “Stato Profondo” dei servizi segreti corrono tensioni e scontri, commentando che “la svolta geopolitica annunciata da Donald Trump potrebbe avere incontrato il favore di quella parte dello Stato Profondo che ha una concezione più realista dei rapporti di forza mondiali” e non continua a perseguire il mito fuorviante dell’unipolarismo. L’autore ha inoltre aggiunto che, tra gli elementi di spicco del Deep State favorevoli a Trump, avrebbe potuto segnalarsi il direttore dell’Fbi James Comey, il quale in ogni caso non ha concesso sconti al presidente in occasione delle sue recenti accuse ad Obama, dichiarandosi “incredulo” per le parole di Trump.In un contesto tanto delicato, le possibili vie d’uscita sono difficili da individuare. Premettendo che l’ascesa di Trump è stato più un effetto che una causa dell’esacerbazione di numerose fratture interne agli apparati di potere statunitensi, e una testimonianza della loro perdita di contatto col polso del Paese, è opportuno sottolineare come un black-out prolungato tra un Presidente e ampi settori dei servizi segreti rappresenterebbe una debolezza difficile da sopportare a lungo per Washington. La proposta di riforma più radicale del vasto e complesso mondo dei servizi segreti è venuta dall’ex Rappresentante Ron Paul, che come riportato su Zero Hedge ritenuta una “minaccia interna alla rule of law e al governo che pretende di servire”. Un appello forte, proveniente da uno storico conoscitore dei rapporti di forza vigenti a Washington, che testimonia come nei prossimi anni lo scontro tra l’attuale amministrazione e lo “Stato Profondo” rischi, in assenza di un modus vivendi , di trascinarsi sino alle estreme conseguenze.
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