La popolarità del presidente americano Donald Trump, racconta la stampa, starebbe crollando a picco, complici il Russiagate, gli scogli giudiziari e parlamentari ai suoi provvedimenti più radicali, e la “resistenza” proclamata dai progressisti nel Paese.

In effetti ci sono diversi sondaggi che corroborano l’idea che il Presidente americano sia molto impopolare: secondo l’aggregatore FiveThirtyEight l’approvazione per Trump sarebbe sotto il 40%. Come sempre, però, è bene non lanciarsi in conclusioni affrettate.

Un primo fatto che impone cautela è l’analisi storica di questi dati. L’unico presidente che, al giorno 150 di mandato, aveva un’approvazione bassa quanto quella di Trump, è stato Bill Clinton; il quale riuscì tuttavia a vincere un secondo mandato e a lanciare in politica la propria moglie, Hillary, facendole sfiorare la Presidenza degli Stati Uniti. I presidenti dell’ultimo mezzo secolo che al giorno 150 avevano l’approvazione più alta sono invece George H.W. Bush e Jimmy Carter: entrambi sonoramente bocciati da parte dell’elettorato quando hanno cercato di essere rieletti.

A indurre ulteriormente cautela sui proclami di sondaggisti e giornalisti è quanto avvenuto con le cinque elezioni suppletive per la Camera dei Rappresentati che si sono svolte dall’elezione di Trump a oggi. È in tali consultazioni che la disapprovazione registrata dai sondaggi avrebbe dovuto manifestarsi concretamente: i democratici lo sapevano e hanno speso cifre record nelle campagne elettorali. Ma di queste cinque elezioni i democratici ne hanno vinta una sola, in California, in una circoscrizione dove l’unico candidato repubblicano ha preso il 3,5%, superato persino dal candidato dei verdi. Chiamarla roccaforte democratica sarebbe riduttivo.

Nelle altre quattro e più competitive elezioni hanno vinto i candidati repubblicani. Si è trattato in tutti i casi di riconferma in seggi che già erano repubblicani, talvolta con dei cali percentuali, ma a contare è la vittoria o sconfitta finale: e i repubblicani hanno retto ovunque. Si potrebbe tuttavia pensare che, in questi casi, l’autorevolezza del Grand Old Party sia stata capace di controbilanciare l’effetto deleterio dell’impopolarità di Trump.

A far dubitare di ciò è il fatto che due dei quattro vincitori repubblicani siano trumpiani di ferro: Greg Gianforte e Karen Handel. Entrambi hanno prima sopravanzato i candidati repubblicani più moderati, e poi conquistato anche l’elettorato generale (ripercorrendo quanto fatto, più in grande, dal loro nume tutelare che oggi siede alla Casa Bianca).

Gianforte è un uomo d’affari che ha cavalcato la sua estraneità alla classe politica e ha espresso sostegno per molti cavalli di battaglia trumpiani: lottare contro l’élite progressista, punire le “città santuario” (ossia le amministrazioni urbane che apertamente sfidano la legge federale proteggendo gli immigrati clandestini), togliere i finanziamenti all’organizzazione Planned Parenthood che promuove e pratica l’aborto nel Paese. Ha attirato notevole attenzione a livello internazionale perché in campagna elettorale ha avuto uno scontro fisico con un cronista del “Guardian”, celebre testata britannica di sinistra. L’aver sollevato di peso e scaraventato a terra il giornalista britannico gli è costato una multa e una condanna ai servizi sociali, ma non le elezioni.

Anche Karen Handel proviene dal mondo degli affari, ma già da alcuni anni si dedica a tempo pieno alla politica. Nel primo turno si è classificata a sorpresa come prima candidata repubblicana e, malgrado il democratico Ossof partisse da oltre il 48% dei voti, lo ha sopravanzato al ballottaggio. La sconfitta è stata tanto più bruciante per i democratici perché il trentenne e inesperto Jon Ossof aveva beneficiato di una campagna da 25 milioni di dollari, la più costosa di sempre per un seggio alla Camera.

Sono ormai due anni che i sondaggisti danno Donald Trump per (politicamente) morto; ma da due anni, a ogni elezione reale, il miliardario newyorkese riesce a ribaltare i pronostici e uscire vittorioso.

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