Con lo straordinario successo del 2015, Justin Trudeau era riuscito a risollevare le sorti del Partito Liberale, a conquistare il governo del Canada e a diventare uno dei leader internazionali più conosciuti e ammirati. Una sequenza di mosse ben orchestrate gli avevano permesso di mettere in luce la sua immagine di giovane leader di un paese aperto e avanzato e di diventare un modello per il “liberal” di tutto il mondo.
L’inconsueto, per il Canada, ruolo di leader carismatico si è però presto scontrato con cambiamenti piuttosto rilevanti nella scena mondiale. L’elezione di Donald Trump e le recenti guerre commerciali hanno messo Ottawa nella scomoda situazione di doversi smarcare in maniera piuttosto plateale dal potente vicino meridionale, trovandosi spesso in maggior sintonia con l’Unione europea. Sintonia tramutata in pratica quando nel 2017 fu siglato il Ceta, accordo di libero scambio tra Canada e Ue, in netto contrasto con le politiche di Washington volte ad un superamento del Nafta, accordo di libero scambio tra Usa, Canada e Messico.
Il Canada resta comunque un’isola felice rispetto alla crisi politica che ha investito gran parte delle democrazie occidentali e Trudeau ha dimostrato di capire la necessità di investire nella classe media e in coloro che cercano di raggiungerla, evitando fino ad ora la nascita di movimenti e leader politici particolarmente radicali o divisivi. Ciò traspare anche dai recenti dibattiti televisivi che anticipano le elezioni federali previste tra poco più di una settimana e che vengono tenuti separatamente nelle due lingue ufficiali del paese, inglese e francese.
Le tematiche principali intorno alle quali hanno dibattuto il premier uscente e il candidato conservatore Scheer hanno riguardato la spesa pubblica, le tasse e il clima, ma non è mancato più di un accenno alla questione dell’immigrazione. Nonostante il Canada abbia un sistema di politiche migratorie ben funzionanti, sul quale si base in parte sia la buona performance economica che l’identità stessa del paese, alcune voci si sono recentemente sollevate contro l’accesso poco controllato di migranti arrivati via terra dagli Stati Uniti.
Scheer ha infatti promesso di limitare tali ingressi, difendendo il sistema di accesso legale al paese, il quale permette una gestione complessiva dei flussi migratori in termini economici e di inserimento lavorativo nel paese.
Se quindi, per molti canadesi, le politiche di accoglienza non sono minimamente in dubbio, per molti, soprattutto nel battagliero Québec, va preservato a tutti i costi il sistema di ingresso legale nel Paese, evitando scorciatoie. Va detto che qualche voce più radicale, sull’onda di altri paesi, sta nascendo anche in Canada, ma al momento appare lontana dal divenire maggioritaria e si rifa principalmente al candidato del People’s Party Maxime Bernier.
Più numerosi invece sono coloro che attaccano Trudeau sulla questione climatica, accusando l’attuale governo di non fare abbastanza e rinfacciando la nazionalizzazione dell’oleodotto Trans Mountain. Su queste tematiche si sono giocati gran parte degli interventi di Jagmeet Singh, candidato del Nuovo Partito Democratico, e di Elizabeth May dei Verdi.
E, paradossalmente, è proprio relativamente ad alcuni cavalli di battaglia fondanti della propria immagine di leader aperto e paladino dei diritti e del clima che Trudeau si trova in maggiori difficoltà. All’inizio dell’estate infatti, è stata divulgata una sua immagine risalente a parecchi anni fa che lo ritrae ad una festa in maschera con il volto dipinto di nero. Tale immagine è stata immediatamente ripresa da tutti i media e ha fatto moltissimo scalpore, venendo associata alla cosiddetta “blackface”, immagine stereotipata delle persone di colore che è considerata universalmente come rappresentazione razzista. Quest’involontario scivolone ha colpito Trudeau sul suo stesso terreno ed è stato un vero autogol mediatico.
Ma il caso che più ha messo a rischio una rielezione che veniva data per certa è scoppiato all’inizio del 2019 quando il governo è stato accusato di aver esercitato pressioni nel processo alla società di ingegneria del Québec SNC-Lavalin, sospettata di aver pagato tangenti in alcuni contratti con la Libia.
L’ex ministra della Giustizia Jody Wilson-Raybould accusò l’entourage del primo ministro di aver agito in maniera inappropriata chiedendole di intervenire nel procedimento giudiziario che avrebbe messo a serio rischio l’attività della società con sede a Montreal.
Lo scandalo per poco non fece cadere il governo e tuttora rappresenta un ostacolo rilevante nella corsa alla rielezione di un giovane leader che fino ad allora non aveva sbagliato nulla e godeva della fiducia dei suoi concittadini.
Quel che è certo è che, seppur appannato, il richiamo mediatico di Trudeau rimane forte e molto si giocherà sulla sua capacità di convincere gli elettori di essere ancora un capo di governo credibile e capace di portare avanti la battaglia contro i cambiamenti climatici e il mantenimento dell’equilibrio tra apertura al mondo e protezione degli interessi economici e strategici nazionali.