Giuseppe Conte nei suoi due anni e mezzo di governo è stato un leader difficilmente inquadrabile in schemi fissi e che, complice la sua natura di totale outsider nel gioco politico romano prima dell’esperienza del governo gialloverde, ha plasticamente adattato la sua posizione a seconda delle esigenze e delle opportunità tattiche. Il “vicepremier di due vicepremier”, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, è diventato il leader decisionista e spesso autoreferenziale della gestione della pandemia. Il capo di governo che parlava di “populismo” e “sovranismo” sanciti dalla Costituzione si è trasformato nel “punto di riferimento” dei progressisti (parola di Nicola Zingaretti). Critico dell’austerità e dei dettami rigoristi nel suo primo governo, Conte ha inaugurato l’esperienza giallorossa da garante dell’europeismo ortodosso. Questo dualismo si è posto anche in relazione al rapporto tenuto da Roma durante il suo governo nei confronti della grande questione geopolitica della nostra era: la sfida tra Cina e Stati Uniti.
Conte è il leader politico che ha siglato il memorandum di adesione dell’Italia alla Nuova via della seta, fortemente criticata da Washington, ma anche l’uomo ritenuto a lungo più vicino a Donald Trump nelle prime fasi del suo governo. La sua postura è oscillata molto spesso, complice l’inesperienza sostanziale sulla gestione delle grandi dinamiche globali, tra picchi di ingenuità su un fronte e rigorosi richiami all’ordine e alla fedeltà alla scelta di campo atlantica prontamente accolti sul secondo. Postura contraddittoria che ha reso Conte ininfluente a Pechino e via via inviso a diversi apparati strategici a Washington e che non mancherà di giocare un ruolo fondamentale quando “Giuseppi” prenderà definitivamente la guida del Movimento Cinque Stelle, inaugurando la carriera da leader partitico.
Il Movimento è oggigiorno dominato da due correnti. Da un lato, il graduale adeguamento di Luigi Di Maio ai canoni tradizionali dell’atlantismo, accentuato nel corso del suo mandato da ministro degli Esteri, in cui l’ex leader M5S è parso più intento a prese di posizione plateali che ad azioni sostanziali. Dall’altro, l’importante peso esercitato sul Movimento dal fondatore Beppe Grillo, che settimana dopo settimana non manca di parlare di aperture alla Cina e nell’estate scorsa ha proposto a Conte, allora premier, un piano sul digitale fortmente autarchico che pareva fatto apposta per tagliare fuori i colossi tecnologici statunitensi. La fuoriuscita di diversi esponenti dell’ala ortodossa del grillismo, la permanenza nel Movimento di una quota di onorevoli attenti alle logiche istituzionali romane e il sostanziale adeguamento di buona parte di essi hanno spostato certamente in direzione della prima linea l’anima pentastellata, ma Conte si trova nella difficile posizione di far coesistere pulsioni differenti senza apparire, all’estero, il garante ideale.
Dagospia ricorda come Conte fu definito da Politico “la “cheerleader di Trump”, prima di provare “ad intestarsi una tardiva amicizia con Joe Biden (“La sua agenda è la nostra agenda”) ma finì malissimo, con il neopresidente americano che, nel primo giro di telefonate dalla Casa Bianca, chiamò tutti (Regno Unito, Francia, Germania, Giappone, Israele)” ma non il premier italiano. Sulla cui caduta potrebbe aver influito la delegittimazione con cui la nuova amministrazione Usa lo aveva di fatto accolto. La percezione è che “nelle stanze dei bottoni di Washington non si fidano di “Giuseppi”, che non ha mai dato prove univoche di atlantismo. La sua ubiquità internazionale ora gli si ritorce contro” e se forse è esagerato vedere negli storici legami con il figlio del cofondatore del Movimento, Davide Casaleggio, un fattore di avvicinamento di Conte alla Cina sicuramente la volontà di barcamenarsi tra campi differenti ha giocato un ruolo nel non fargli prendere una decisione netta. Col risultato di essere sottovalutato a Washington senza esser realmente calcolato in Cina alla stregua degli altri big europei.
In quest’ottica, un Movimento indeciso sul suo collocamento internazionale lascerebbe spazio, in campo progressista, al proseguimento della ricerca da parte degli Usa dei loro referenti internazionali nel campo del Partito Democratico, in cui il neosegretario Enrico Letta garantisce, da questo punto di vista, più di Nicola Zingaretti e al cui interno vi sono figure fortemente ascoltate a Washington come il ministro della Difesa Lorenzo Guerini.
La realtà dei fatti è che anche sul campo della politica estera Conte non ha una vera linea: privo di profonda cultura politica ma dotato di fiuto tattico, nei suoi anni di governo ha voluto prendere volta dopo volta la scelta di campo più funzionale all’ampliamento della sua visibilità agli occhi delle coalizioni da lui guidate, presentandosi come punto di sintesi prima ancora che decisore. Questa capacità ha portato però, in politica estera, a scelte contraddittorie che si sono ripercosse sulla tenuta della linea da parte del governo. Un dilettantismo che, soprattutto nell’era giallorossa, ha prodotto una graduale marginalizzazione del Paese nei principali tavoli globali. A Conte piace narrarsi grande statista: ma la realtà dei fatti è che la sua visione del mondo coincide, in larga parte, con la visione delle sue opportunità personali nel mondo. Che in un Movimento in crisi politica e di consenso dopo l’exploit elettorale del 2018 e tre anni di governo appaiono ad ora decisamente incerte da definire.