Tillerson e Lavrov si sono ritrovati nella stesso albergo ad Adis Abeba, come segnalato un articolo di Raffaella Scuderi sulla Repubblica del 9 marzo.

Mal d’Africa per Russia e Stati Uniti: la capitale etiope è stata scelta dai ministri degli Esteri dei due Paesi per iniziare un tour nel Continente nero allo scopo di aprire nuovi spazi ai propri commerci, inseguendo la Cina che a tale esercizio si dedica da anni.

Un itinerario parallelo e contrastante quello di Sergej Lavrov e Rex Tillerson, né poteva darsi altrimenti stante le rivalità. E però l’articolo della Scuderi segnala appunto il curioso incrocio di vie: i due, e le rispettive delegazioni, sono stati ospiti per un giorno intero allo Sheraton di Addis Abeba.

La cronista registra che non hanno neanche preso un cappuccino insieme, anzi hanno pure bisticciato via Facebook perché i russi avrebbero chiesto un incontro, negato dagli americani.

Certo, le cose potrebbero essere andate come descrive la cronista, ma qualche dubbio in proposito è più che lecito. Non si danno coincidenze nella geopolitica, tranne che per eccezioni che confermano la regola.

E la coincidente dislocazione dei due ministri degli Esteri non appare affatto casuale. Tali viaggi sono preparati con cura e nei particolari.

Anche il battibecco, reso più pubblico possibile attraverso Facebook, sembra più una cortina fumogena che altro: una sorta di excusatio non petita.

Certo, Lavrov e Tillerson hanno accuratamente evitato di farsi vedere insieme, né poteva essere altrimenti stante la tempesta maccartista che sta scuotendo l’Occidente e l’inchiesta sul Russiagate che martella l’amministrazione Trump.

Ma, senza dover per forza ricorrere ai pizzini tristemente usuali nelle comunicazioni mafiose, va ricordato che esistono modi e forme di comunicare segrete che certi apparati sanno usare e dosare con modulata intelligence.

Insomma, al di là delle apparenze, è più che probabile che il convegno di Adis Abeba sia servito a Lavrov e Tillerson per comunicarsi qualcosa nel segreto.

Ovviamente non si prende un tale rischio, perché tale è per il Segretario di Stato americano, se non per parlare di cose più che importanti.

E le due potenze globali attualmente hanno due punti di alto contrasto, come registrano le cronache degli ultimi mesi, ovvero la criticità coreana e quella mediorientale.

La prima, come si è visto in questi giorni, ha già i suoi mediatori: bastano i sudcoreani, non servono ulteriori convegni segreti (Piccolenote).

Nel secondo scenario di crisi invece è tutt’altro: nonostante i contatti, visibili e sottotraccia, che intercorrono tra i vari attori regionali e internazionali, la regione è a rischio di incidenti di interesse globale.

Tante le criticità in zona: lo sviluppo della guerra siriana, l’aggressività turca, il dilatarsi dell’influenza iraniana fino al Mediterraneo, le azioni di contrasto, palesi e occulte, a Damasco e Teheran poste in essere da Washington, Tel Aviv e Ryad. Tante e incontrollabili le spinte che si intersecano pericolosamente.

Ad oggi appare impossibile ricomporre un puzzle le cui tessere sono impazzite. Ma proprio per questo è necessario tentare di dare un argine, e quindi rendere quantomeno gestibili tali crisi.

Né gli Stati Uniti né la Russia, nonostante coltivino prospettive contrastanti sul Medio oriente, vogliono un conflitto globale. Che potrebbe essere innescato da incidenti di percorso.

Certo, già esistono meccanismi atti a disinnescare minacce similari. Ma possono non bastare. Da qui la necessità di un discernimento ulteriore. In un luogo appartato e lontano dal rumore di fondo del mondo. Perché no, ad Adis Abeba…

Nota a margine. Segnaliamo che ieri la televisione americana Abc ha intervistato Putin, il quale ha tessuto un elogio di Trump. Segnali distensivi da non trascurare.

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