A novembre scorso sembrava tutto segnato. A Singapore per la prima voltadalla fine della guerra civile un presidente cinese, Xi Jinping, stringeva la mano al suo omologo taiwanese, Ma YingJeou. Era solo l’ultimo gesto, il più simbolico, di un progressivo riavvicinamento tra i due Paesi. Un anno prima lo stesso Xi Jinping aveva riesumato la politica del «un Paese, due sistemi», la formula con cui negli Anni Ottanta Deng Xiaoping aveva deciso si sarebbe risolta la questione di Macao e Hong Kong e, all’occorrenza anche di Taiwan. Ma visto che il tango si balla sempre in due, Pechino non aveva fatto i conti con il popolo taiwanese. Che in occasione delle elezioni presidenziali dello scorso gennaio ha chiaramente dato la sua risposta. Se a novembre erano stati i giovani a scendere in piazza protestando contro il presidente accusato di offrirsi ai cinesi, a gennaio è stato tutto il Paese a dire chiaramente no. Il trionfo di Tsai IngWen, leader del partito democratico progressista e prima donna a diventare presidente, ha reso nuovamente agitate le acque dello stretto di Taiwan. Il partito democratico progressista infatti è da sempre fautore dell’indipendenza e decisamente contrario alla politica di riavvicinamento tra Pechino e Taipei. Politica portata avanti invece dall’ultimo presidente, Ma YingJeou del Koumintang, a partire dalla sua prima elezione nel 2005. Un decennio di disgelo – inaugurati voli diretti, relativa libertà di movimento per i cittadini dei due Paesi, scambi commerciali floridi – dopo quasi 50 anni di relazioni perlomeno tese. Tutto iniziò quando nel maggio 1949 Mao stabilì la Repubblica popolare cinese ponendo fine alla guerra civile che insanguinava la Cina dalla fine della seconda guerra mondiale. Allora i nazionalisti di Chiang KaiShek si rifugiarono sull’isola di Formosa con la promessa di tornare a Pechino. Promessa che è rimasta un sogno sempre più remoto. Se fino al 1972 la Repubblica di Cina – come si chiama ufficialmente Taiwan – poteva contare sull’appoggio delle potenze internazionali, da allora ha progressivamente perso alleati. Anche se gli americani hanno sempre assicurato il sostegno militare. Oggi siamo al punto che la Repubblica di Cina – che una volta aveva un seggio permanente alle Nazioni Unite è riconosciuta ufficialmente solo da ventuno Paesi (non l’Italia, ma sì dalla Santa Sede) e ha uno status giuridico ibrido. Pur non rinunciando alle minacce contro quella che continua a considerare una provincia ribelle, Pechino nell’ultimo decennio ha portato avanti una politica di pazienza e corteggiamento economico. Una strategia che mirava a far cedere Taiwan, lusingandolo economicamente, nella convinzione che prima o poi avrebbe deciso di riunirsi pacificamente alla madrepatria. Sbagliato. Quello che emerge da queste elezioni è la voglia, semplice e chiara, di un’intera generazione di marcare la propria differenza dai potenti vicini e anche dal proprio passato. Se nel 1991 il 46,4 degli abitanti dell’isola si diceva cinese, oggi il 53 % si definisce solo taiwanese. Quelli che si dicono cinesi sono calati al 5%. Molto di meno di quel 10% di popolazione che è diretta discendente dei soldati e dei civili che scapparono dalla Cina di Mao per trovare rifugio nella provincia «ribelle» seguendo il generale Chiang KaiShek. Una voglia netta di indipendenza e democrazia. Del resto i giovani sono nati dopo la fine della legge marziale, in uno Stato liberale e democratico. Basta parlarci e lo capisci subito. «Che cosa siamo noi? Siamo cinesi, siamo americani? Siamo cinesi con una cultura moderna, ovvero siamo taiwanesi». Tutta un’altra cosa.
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