L’attacco di Charlottesville, dove una macchina si è lanciata contro un corteo anti razzista, è opera dei suprematisti bianchi. Quanto avvenuto in Virginia è scaturito da una marcia organizzata per evitare la rimozione di una statua, quella del generale Lee. Charlottesville, 45 mila abitanti, 300 km da Washington, è stata vittima, suo malgrado, degli strascichi della guerra civile americana. Sembra incredibile nel 2017, ma è così. A meno che non si ipotizzi l’esistenza di una nuova, sommersa, guerra civile. 

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La nascita dei movimenti di estrema destra e del Ku Klux Klan, del resto, risale all’indomani del termine della guerra civile americana: maggio 1865. Uno degli scopi dei movimenti creatisi negli States, era proprio quello di difendere i confini del sud, affermando una supposta superiorità razziale nei confronti dei neri,  liberati dalla schiavitù. Quanto consumato in Virginia, insomma, assume le sembianze di un incredibile balzo nella storia. Ma quali sono, oggi, i movimenti ascrivibili all’estrema destra americana? Quale la piattaforma programmatica? Esistono legami con  l’alt right di Bannon? Domande cui la stampa progressista fornisce risposte certe, forse in modo un po’ approssimativo. 

Suprematisti d’America

Tra convention di Nashville del 1867 e la macchina scagliata in Virginia poche ora fa, sono passati 150 anni. Eppure l’ideologia del “potere bianco” continua a far parlare di sè. Tra gli esponenti di maggior spicco, c’è David Duke. Un passato da gran maestro del Klu Klux Klan, è stato uno degli organizzatori della marcia di Charlottesville. Duke si è candidato per un seggio al Senato in Louisiana come Repubblicano, decidendo di sostenere Donald Trump, ma l’attuale Presidente degli Stati Uniti d’America prese immediatamente le distanze dalla candidatura e dal sostegno. Rispetto quanto avvenuto in Virginia, Duke avrebbe affermato che si è trattato di un evento chiave e della prima “messa in pratica del programma elettorale di Donald Trump”. La sensazione è che l’immagine presidenziale del Tycoon venga sfruttata a dovere da questi movimenti, in funzione di un tentativo più o meno disperato di restare in auge.

Edoardo Cigolini, uno dei vincitori del Reporter Day, racconterà con una serie di reportage l’ascesa dell’Alt Right americana. Stay tuned!

La tesi per cui Trump avrebbe vinto le elezioni grazie al sostegno di Duke e soci, insomma, appare statisticamente improbabile oltre che pretestuosa. Tra i sostenitori di Trump, tuttavia, c’è un’anima nera. Questo sì. Un altro sostenitore scomodo del POTUS, ad esempio, è Rocky Suhayda, leader dell’American Nazi Party. Uno dei suprematisti bianchi che più volte si è espresso favorevolmente rispetto all’ “opportunità” derivante dalla presidenza di Trump. Il partito nazista americano, oggi, ha sede in Michigan, ma la piattaforma originale studiata da Rockwell trovava le sue origini proprio in Virginia, ad Arlington. Un altro movimento border line è quello guidato da Richard Spencer: questi ha più volte dichiarato di appartenere all’alt-right e di non avere nulla a che fare con organizzazioni neonaziste, ma immediatamente dopo la vittoria di Trump ha fatto parlare sè per il discorso pronunciato durante i festeggiamenti:  “Hail Trump, hail our people, hail victory!”. In risposta arrivarono saluti romani. Suprematisti bianchi, questo l’elemento comune, e un Presidente mai dichiaratosi affine, ma preso in considerazione dai vari movimenti come “opportunità”. Il numero complessivo degli attivisti, però, risulta, da una serie di stime, molto basso ed evidenzia come, anche nel caso in cui verso Trump ci fosse stato un vero e proprio sostegno, questo non possa aver influito più di tanto sull’esito delle elezioni. 

Come sta il Klu Klux Klan

L’ideologia razzista in America non è passata di moda. La differenza sostanziale tra le origini del KKK ed oggi sta nell’organizzazione: non esiste più un vertice centralizzato, ma gli aderenti dei giorni nostri si ritrovano sparpagliati in decine di cellule territoriali. Tra queste, i Loyal White Knights, il cui capo è Chris Barker e la cui rete è finita per divenire più che continentale, riuscendo a coinvolgere anche i membri di ” Hope Not Hate“, un gruppo made in United Kingdom, balzato alle cronache per il sostegno alla Brexit. Ma proprio l’organizzazione inglese, riuscendosi ad infiltrare all’interno del movimento di Barker, è riuscita, mediante una vera e propria inchiesta giornalistica, ad aggiornare le informazioni sullo stato di salute del KKK americano. Tra i tremila e i cinquemila membri, dunque, militerebbero attivamente dentro le fila dei sostenitori statunitensi della superiorità della razza bianca. E per quanto il KKK sostenga di aver cessato qualunque attività violenta, proprio l’infiltrazione dei membri di Hope Not Hate ha permesso di registrare come siano ancora presenti elementi di antisemitismo, di violenza fisica, di progettazione d’attentati e così via. E sempre a Charlottesville. all’inizio dello scorso luglio, gli attivisti del KKK fecero la loro comparsa: una cinquantina di membri, già all’epoca, protestava contro la rimozione della statua del generale Lee, con tanto di bandiere degli stati confederati. Come da tradizione, in definitiva, il Klan è ancora attivo principalmente negli stati del sud: Mississipi, Louisiana, Georgia, Sud Carolina e, ovviamente, Nord Carolina. 

Una nuova guerra civile 

Ma se queste sono le premesse organizzative, cosa accade nelle strade d’America? In alcuni zone, specie in quelle che una volta rappresentavano una terra di confine tra nord e sud, c’è una guerra non dichiarata, sopita e combattuta con le armi del revisionismo storico. Quanto accaduto a Charlottesville, del resto, è solo il punto tragico di una contrapposizione politica mai risoltasi del tutto, nonostante i 150 anni dalla fine della guerra di civile. Ed è dentro questa ferita storica, che si inseriscono i suprematisti bianchi, abili con le loro peculiarità a sfruttare il momento. Esattamente come avviene con Donald Trump. Prima ancora della tragica guerra di bande tra propugnatori del “White Power” e quelli del “Black Power”,  negli States, infatti, c’è un’altra contrapposizione: tra chi è fieramente soddisfatto dell’esito della guerra civile americana e chi, soprattutto al sud, visse sulla propria pelle gli effetti di quest’ultima: povertà, crisi strutturale sino a metà del 900′, obbligazioni confederate andate perse del tutto, bancarotta delle ferrovie e reddito pro capite dei cittadini del sud sceso al 40% del valore di quello di un cittadino del nord per una buona metà del 900′. E queste furono solo alcune delle conseguenze che gli stati confederati pagarono dopo il 1865. Ed è all’interno di questi dati storici che vanno interpretati gli sbandieramenti con i simboli degli ex stati confederati, manifestazioni sfruttate scientificamente dai suprematisti per provare a  dire ancora qualcosa nella storia contemporanea. Il generale Lee, in fin dei conti, è soprattutto un simbolo per chi di quella guerra ancora non se ne è ancora fatto una ragione, non tanto per il Klu Klux Klan o per i suprematisti bianchi d’America. 

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