C’entra qualcosa la fede ed il suo radicale attaccamento ad essa negli ultimi attentati? Il dubbio sorge. L’attentatore di Nizza, colui che il 14 luglio del 2016 fa più di 80 morti entrando a tutta velocità con un tir nel lungomare, non viene descritto come un uomo religioso. L’identikit che più accomuna gli autori di molti degli attentati commessi in Europa, non è l’assidua frequentazione delle moschee. Bensì due elementi ben precisi: essere giovani ed appartenere alla seconda generazione di emigrati. 

Il “vuoto” di valori

Non si è nati nello stesso posto dove risiede gran parte della famiglia ma, al tempo stesso, non ci si sente pienamente appartenenti al paese europeo di cui si ha la nazionalità. Il profilo psicologico degli attentatori che hanno colpito in Europa, traccia delle personalità che sembrano come sospese in un “limbo”. Non si è né africani e né europei. I costumi non sono quelli del padre emigrato possibilmente anni prima, ma al tempo stesso religione e lingua non sono le stesse di molti dei coetanei o dei compagni di scuola. Anis Amri, l’attentatore di Berlino scovato e poi ucciso in Italia nel 2016, ha un “curriculum” fatto di episodi di micro criminalità. Non lo si trova in moschee od in centri culturali, passa gran parte della sua vita in prigione specialmente durante gli anni in Italia, dove è protagonista del danneggiamento di due centri d’accoglienza in Sicilia. Gesti mai compiuti in nome dell’islam o della jihad. Solo dopo, forse in carcere, diventa un individuo radicalizzato ma, anche in quel caso, non manifesta un assiduo attaccamento ai valori della fede islamica. 

Cherif Chekatt, l’attentatore di Strasburgo, veste all’occidentale e non viene quasi mai notato nelle moschee. È più conosciuto nelle carceri che nei luoghi di culto, la sua fedina penale è costituita da una lunga sfilza di reati e condanne ed accanto alla sua foto compare la S che indica il pericolo di radicalizzazione. Nonostante questo, le forze di sicurezza francesi non riescono a fermarlo prima dell’attuazione dei suoi propositi di morte. Ma questo è un altro discorso: il punto è che, da questo ennesimo tragico episodio, si può notare come il pericolo del terrorismo arrivi di più tra quei giovani di seconda generazione apparentemente lontani da ambienti religiosi. Chekatt ha origini algerine,  nasce nel 1989: ha solo pochi anni quando il suo paese d’origine sprofonda nella guerra civile per via dell’avanzata dell’estremismo islamico. Ma lui da quella storia sembra completamente distante. Forse sa dell’esistenza della guerra civile in Algeria grazie a qualche lezione di storia, ma Chekatt non è figlio di quel conflitto. L’attentatore è invece prodotto di un disagio generazionale, in cui il non avere un terreno di valori forti sotto i piedi, fa vedere nell’Isis e nel terrorismo islamico l’unica valvola di sfogo. 

Il degrado delle periferie

Dal disagio generazionale a quello economico e sociale il passo è spesso breve. Strasburgo è tutto sommato una città piccola, non arriva a trecentomila abitanti. La sua dimensione non arriva ad essere più grande di quella di Firenze, Catania o Bologna. Certo ha un hinterland molto vasto, che fa superare al suo agglomerato urbano la quota di un milione di abitanti complessivi, nulla però al cospetto dei dieci milioni di Parigi. Ci si aspetta dunque una città più vivibile e, soprattutto, più controllabile. Le banlieue sembrerebbero un fenomeno, per l’appunto, confinato alla capitale od a città come Marsiglia e Lione. Ed invece anche Strasburgo ha le sue periferie degradate, anche a pochi passi dal parlamento europeo insistono quartieri dove spaccio e mancanza di lavoro compongono la principale cornice sociale. E Cherif Chekatt proviene proprio da lì. 

Le immagini delle teste di cuoio in procinto di entrare nel casermone luogo di uno dei suoi ultimi rifugi, nulla hanno di diverso da quelle del novembre 2015 provenienti da Saint Denis, lì dove si nascondono alcuni membri della cellula che pochi giorni prima è protagonista degli attacchi di Parigi. Mancanza di prospettive, degrado, senso di abbandono: un mix, una vera e propria polveriera sociale che, tra i ragazzi della seconda generazione di emigrati, vuol significare strada spianata verso la radicalizzazione. Non solo moschee od istituti culturali gestiti da uomini barbuti già segnalati negli anni ’90. In Francia, come nel resto d’Europa, il pericolo proviene da ragazzi in jeans e maglietta slegati dai valori d’origine e confinati dentro profonde periferie.