Il corso politico inaugurato dall’amministrazione Trump nei confronti dell’Iran, basato sulla cosiddetta “massima pressione“, sta avendo successo: la reintroduzione ed il potenziamento del regime sanzionatorio hanno affossato la già fragile economia, lobbismo e minacce hanno isolato diplomaticamente Teheran, e la campagna martellante a base di omicidi mirati ed attacchi chirurgici fra Libano, Siria ed Iraq, coadiuvata da Israele, sta decapitando la rete di proxy scrupolosamente costruita all’indomani della caduta di Saddam Hussein.
La recente morte del generale Qasem Soleimani ha rappresentato un punto di svolta, di non ritorno, che potrebbe aver realmente sancito l’inizio della caduta del regime rivoluzionario che dal 1979 guida l’Iran.
Infatti, con la scomparsa di Soleimani, il paese ha perso una figura difficilmente sostituibile, in termini di carisma, abilità diplomatiche e mentalità strategica, essendo stato il regista dell’espansione e della ramificazione di Hezbollah in Medio oriente ed America Latina e colui che ha quasi portato a compimento il sogno del cosiddetto “asse della resistenza“, ossia un corridoio transmesopotamico da Teheran a Tartus.
Ma anche se l’ordine khomeinista dovesse cadere sotto i colpi dell’asse Washington-Riad-Tel Aviv, ragioni immutabili di natura geopolitica e geofilosofica rendono altamente improbabile l’instaurazione di una pace duratura fra l’Occidente e la civiltà-stato iraniana.
L’eredità del grande gioco
La rivoluzione conservatrice di Ruhollah Khomeini del 1979 sarà ricordata come uno degli eventi più significativi, e dall’impatto culturale più profondo, della storia contemporanea ma, contrariamente a quanto si possa pensare, le origini della guerra fredda Stati Uniti-Iran sono molto più datate e hanno come propria radice il grande gioco del 19esimo secolo fra impero britannico ed impero russo.
Si tratta di un periodo storico durato dagli anni ’30 del 1800 fino al 1907, durante il quale i due imperi si affrontarono intensamente per la spartizione dell’Asia centro-meridionale attraverso guerre per procura, contese egemoniche e rivalità antagonistiche, nella prospettiva di colmare il vuoto di potere lasciato dai decadenti ed in ritirata imperi ottomano, cinese e persiano.
Fu in quell’epoca che i britannici consolidarono la loro presenza nel subcontinente indiano e nel mondo sino-confuciano, mentre la famiglia Romanov estese i confini della Terza Roma fino all’Artico, al Caucaso e all’Asia centrale turcofona. La campagna espansionistica portò, infine, i destini dei due imperi ad incontrarsi e scontrarsi nella vulnerabile Persia della corrotta e declinante dinastia Qajar.
Imperare su Teheran era estremamente importante in virtù dei vantaggi derivanti dalla sua posizione geostrategica: accesso diretto alle rotte commerciali dell’oceano indiano, punto di contatto permanente e privilegiato fra Medio oriente, Asia centrale e meridionale, controllo dei vasti giacimenti di risorse naturali ivi contenuti.
I britannici volevano impedire ai russi di ottenere uno sbocco su un mare caldo, mentre i russi volevano creare un’area-cuscinetto fra i domini della corona inglese e i khan centro-asiatici conquistati dagli zar. Raggiunsero un’intesa nel 1907, spartendosi l’Asia centro-meridionale, Persia inclusa: il paese fu diviso in due zone di influenza, Londra si assicurò la parte meridionale, impedendo a San Pietroburgo di avverare il sogno recondito dell’accesso alle acque calde.
Lo scoppio della rivoluzione d’ottobre e la conseguente chiusura al mondo dell’Unione Sovietica negli anni ’20 furono sfruttati da Londra per cementare il dominio sulla Persia: la famiglia Qajar fu sostituita dai Pahlavi, ritenuti più affidabili, ed il trono fu consegnato a Reza Shah in cambio di una politica estera ed energetica favorevole agli interessi britannici.
Ma negli anni ’30, Reza Shah iniziò a manifestare una crescente insofferenza nei confronti della sottomissione semi-coloniale sperimentata dal paese, adottando una serie di misure nazionalistiche che lo inimicarono agli occhi di Londra, fra cui l’annullamento e la riscrittura della concessione petrolifera all’Anglo-Persian Oil Company, il trasferimento del diritto di stampare moneta dalla Banca Imperiale Britannica a quella nazionale iraniana, e leggi per de-stranierizzare i settori strategici, sullo sfondo di un maggiore autonomismo negli affari esteri.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, nel timore che l’Iran potesse unirsi all’asse nazifascista, nel 1941 gli inglesi invasero il paese, con il supporto sovietico, occupando Teheran. Ai Pahlavi fu lanciato un severo monito, al quale seguirono l’abdicazione forzata di Reza Shah e l’insediamento al trono di suo figlio Mohammad Reza.
Come suo padre, anche Mohammad, dopo un periodo di cieca acquiescenza ai diktat di Londra, si circondò di nazionalisti, tentando di emanciparsi dall’influenza britannica. Il 1951 fu l’anno della svolta: Mohammad Mosaddegh, promotore della nazionalizzazione dei settori strategici, inclusa l’industria petrolifera, fu nominato primo ministro. A quel punto, gli inglesi chiesero aiuto agli Stati Uniti, agitando lo spettro di una possibile rivoluzione comunista nel paese: fu l’inizio dell’operazione Ajax.
Per due anni l’Iran fu scosso da operazioni coperte aventi l’obiettivo di destabilizzare il governo, infiammare la società civile e minare il consenso verso i Pahlavi. Alla fine, lo scià cedette alle pressioni: nel 1953 Mossadegh fu deposto e condannato agli arresti domiciliari a vita, la sua carica fu assunta dal generale filoamericano Fazlollah Zahedi. L’operazione Ajax sancì la fine del dominio britannico sull’Iran e l’inizio di quello statunitense.
Lo scià accettò di entrare a far parte della cosiddetta “politica dei due pilastri“: l’Iran diventava il principale guardiano degli interessi nazionali di Washington in Medio oriente insieme all’Arabia Saudita.
Negli anni ’70, però, l’ascesa di regimi anti-imperialisti nel mondo islamico, come quello di Muammar Gheddafi in Libia e di Saddam Hussein in Iraq, e l’acutizzarsi della guerra fredda, convinsero lo scià a tentare un ultimo sforzo egemonico. Le relazioni con Israele furono declassate in favore di quelle con Gheddafi e Saddam, fu sposata la causa palestinese, ed appoggiato l’embargo anti-occidentale dei paesi Opec del 1973.
Non riuscì a portare a compimento le sue ambizioni di grandezza, perché la sua agenda domestica mirante all’occidentalizzazione dei costumi e dell’identità del paese, implementata attraverso sanzioni e repressione, aveva coalizzato interi settori della società contro l’ordine regnante. L’ayatollah Ruhollah Khomeini, esiliato dallo scià alcuni anni prima per via delle sue attività antigovernative, diventò il leader morale delle proteste.
Lo spettro di una guerra civile convinse lo scià a fuggire. A quel punto, Khomeini fece rientro a Teheran, accolto come un eroe. Il popolo fu chiamato alle urne e posto dinanzi la decisione di trasformare la monarchia in una repubblica teocratica incardinata sui dettami della shar’ia: il fronte del “sì” stravinse, nacque la repubblica islamica dell’Iran. Il paese si chiuse completamente sia al blocco occidentale che a quello orientale, portando avanti un proprio progetto ideologico e scrivendo un nuovo capitolo del secolare scontro con l’Occidente.
Nemici per sempre?
In economia si parla di paesi “maledetti dalle risorse naturali”, in geopolitica si parla di paesi “maledetti dalla geografia”. L’Iran appartiene ad entrambe le categorie, perciò è legittimo sostenere che lo scontro con l’Occidente sia destinato a continuare anche qualora l’ordine rivoluzionario dovesse cadere per via delle crescenti pressioni provenienti dall’asse Washington-Riad-Tel Aviv.
Infatti, per logiche di natura geopolitica l’Occidente non può consentire all’Iran di muoversi autonomamente nell’arena internazionale, e neanche può ridurre al minimo le ingerenze nei suoi affari interni, mentre ragioni culturali e geofilosofiche spiegano la costante dei contraccolpi anti-imperialistici e delle rinascite nazionalistiche provenienti dalla società o dalla politica.
Ogni potenza affronta fasi di crescita, maturazione e declino, ed è proprio ciò che sta accadendo all’Iran khomeinista: l’intervento in Iraq e l’espansione nel Vicino oriente e nella penisola arabica avevano segnato l’entrata nel periodo della maturazione, ma il contenimento messo in piedi nel dopo-Stato islamico dall’amministrazione Trump, da casa Saud e da Benjamin Netanyahu ha posto le basi per l’inizio del declino.
Ma se anche l’Occidente dovesse vincere il nuovo grande gioco, riuscendo nel sottomettere nuovamente Teheran attraverso dei governi fantoccio, per i motivi geopolitici e geofilosofici sopra descritti, lo status quo non durerebbe nel lungo periodo, perché artificiale ed ingiusto. Alla condanna della ripetizione della storia si potrebbe porre fine soltanto rivoluzionando il modo di fare e pensare le relazioni internazionali, sostituendo alla logica della potenza e al dilemma della sicurezza i principii della coesistenza pacifica, del rispetto degli spazi vitali e del rispetto reciproco delle sfere di influenza.