Donald Trump si recherà a Copenaghen per una visita di Stato ufficiale il 2 e il 3 settembre per discutere del ruolo che il Paese è inevitabilmente chiamato a giocare nella nuova Guerra fredda, in virtù del controllo esercitato sulla Groenlandia. Gli incontri con il primo ministro e la regina saranno un obbligo da cerimoniale, ma il vero obiettivo del presidente sono gli esponenti del governo autonomo groenlandese, con i quali avrà un dialogo a porte chiuse.
Le mani della Cina sull’isola artica
Il segretario di Stato Mike Pompeo avrebbe dovuto fare tappa in Danimarca a maggio scorso, ma la crisi iraniana lo aveva infine costretto a rimandare il viaggio a tempo indefinito. Pompeo era stato incaricato di discutere un dossier molto delicato: quello degli investimenti cinesi in Groenlandia.
L’Artico è destinato a diventare uno dei principali terreni di scontro geopolitico della nuova Guerra fredda, anche alla luce del cambiamento climatico che lo renderà più accessibile, ma gli Stati Uniti, distolti dalla guerra al terrorismo e dai cambi di regime fra Nord Africa e Medio oriente, sono entrati a competizione già avviata.
La Cina, che si è autodefinita un “Paese quasi artico“, rivendica un ruolo di primo piano nello sfruttamento della regione polare e da diversi anni sta utilizzando la diplomazia del denaro per penetrare avamposti strategici, dall’estremo nord russo ed europeo alla Groenlandia. Quest’ultima è di particolare interesse per Pechino, perché potrebbe fungere da uno dei principali snodi di trasporto e comunicazione nel contesto dell’ambiziosa “Via della seta artica“.
Per poter competere adeguatamente nel proibitivo teatro polare, la Cina ha anche commissionato la costruzione di sette navi rompighiaccio.
Investitori cinesi hanno provato a vincere dei contratti nel settore aeroportuale e portuale, ma hanno dovuto fronteggiare una dura la realtà: la classe politica locale è pesantemente sottoposta alle influenze statunitensi. Per questa ragione le ambizioni del dragone si sono spostate su un settore altrettanto strategico, e più facilmente infiltrabile: il minerario.
La Groenlandia è ricca di giacimenti di terre rare, metalli preziosi e altre risorse naturali, ma il loro sfruttamento è stato fino ad oggi limitato sia per la carenza di investimenti che per le barriere climatiche. Oggi che queste ultime stanno venendo meno, la Cina ha velocemente sfruttato l’occasione destinando miliardi di yuan nello sviluppo di progetti estrattivi, come l’impianto di Kvanefjeld, co-gestito in minoranza dalla Shenghe Resources con l’australiana Greenland Minerals, che è specializzato nella raccolta di uranio e terre rare, e l’impianto di Citronen Fjord, anch’esso una co-gestione cinese-australiana, che è specializzato nell’estrazione di zinco.
Inoltre, la China National Petroleum Corp. e la China National National Offshore Oil Corp. stanno lavorando per ottenere concessioni petrolifere e per l’estrazione di gas naturale nella Groenlandia occidentale entro il 2021, mentre a Isua, una compagnia di Hong Kong detiene i diritti per lo sfruttamento minerario di un giacimento di ferro.
I piani degli Stati Uniti
Gli Stati Uniti sono presenti in Groenlandia sin dallo scoppio della seconda guerra mondiale, e nel 1940 offrirono 100 milioni di dollari di Copenaghen per il suo acquisto, ma senza successo. Durante la guerra fredda, con l’autorizzazione danese, hanno costruito la base aerea Thule, ancora oggi operativa. Altre basi, aperte sia per scopi militari che di ricerca scientifica, erano stato costruite, ma sono poi state abbandonate.
I piani della Casa Bianca sono chiari: convincere il governo groenlandese a rifiutare offerte di investimento cinesi nelle infrastrutture strategiche, come aeroporti e porti, ammodernare la base Thule e utilizzarla come testa di ponte per una militarizzazione massiccia dell’isola, incrementare la presenza del personale militare statunitense, sia terrestre che navale, elaborare un piano di sviluppo economico per l’isola per estromettere Pechino.
Fino ad oggi, le pressioni statunitensi sul governo autonomo groenlandese hanno avuto la meglio: un progetto d’acquisto di una base navale abbandonata è stato annullato, e tre offerte allettanti per la costruzione di aeroporti di livello internazionale sono state rifiutate.
Ma gli investimenti promessi da Washington non sono arrivati, lasciando che nell’isola serpeggiasse il malumore. Non è un caso, quindi, che Trump si incontrerà con una delegazione di affaristi danesi e groenlandesi: l’obiettivo potrebbe essere di sbloccare finalmente gli investimenti promessi in passato.
La nuova strategia russa
Ma anche la Russia è fonte di preoccupazione, alla luce della sua presenza permanente e naturale nel circolo polare artico. La più recente ed aggiornata strategia del Cremlino per l’egemonizzazione dell’Artico non punta esclusivamente sul predominio militare, ma sulla guerra dell’informazione e sullo sfruttamento dei malumori fra inuit e danesi.
Istituti russi stanno finanziando e promuovendo iniziative culturali dirette alle popolazioni autoctone di Groenlandia e delle isole Fær Øer, per alimentare le già esistenti aspirazioni secessioniste.
L’attivismo russo nelle Fær Øer ha già prodotto risultati: il governo locale non ha aderito al regime sanzionatorio euroamericano legato alla crisi ucraina, ed ha anzi intensificato i rapporti bilaterali, soprattutto economici, con Mosca. Lo scorso anno, un quarto delle esportazioni di pesce totali dell’arcipelago sono finite nel mercato russo.
Il timore è che un focus maggiore delle operazioni psicologiche e culturali sulla Groenlandia, i cui rapporti con Copenaghen sono storicamente tesi e mantenuti dalle pressioni degli Stati Uniti, possa nutrire il montante separatismo inuit, che è già ampiamente corteggiato dalla Cina.