Domenica al Campidoglio si sono celebrati i sessant’anni della firma dei Trattati di Roma, primo embrione di quella che nel tempo sarebbe diventata l’Unione europea.Celebrazioni alquanto sottotono quelle di domenica, anche perché tale anniversario, per una coincidenza non certo casuale, è coinciso con l’avvio della Brexit, che a livello simbolico, e non solo, ha indebolito non poco l’edificio comune.A rendere ancora più fosco il cielo sopra il consesso romano il fatto che la celebrazione della nascita della Ue rischia di coincidere con la sua fine, stante che se le elezioni presidenziali francesi – che si concluderanno a maggio – vedessero l’affermazione di Marine Le Pen è possibile che si consumi anche la Frexit, eventualità che assesterebbe un colpo mortale alla Ue.A complicare la ricorrenza anche le tante criticità che affliggono il Vecchio Continente: anzitutto la crisi economica che ha devastato quasi tutti i Paesi membri, un tunnel del quale non si vede uscita; ma anche la sollecitazione cui è sottoposto dall’insorgenza di un flusso migratorio di portata epocale; la sfida posta dal terrorismo globale e altro.Il vertice di Roma, oltre che celebrare quanto avvenuto anni fa, avrebbe dovuto interpellarsi sulla strada da percorrere, dal momento che essa sembra portare dritta verso un baratro.L’unica vera novità introdotta in questo vertice è la possibilità di introdurre nella Ue la variabile delle due velocità. Cambiamento sottoscritto da tutti i Paesi previa limatura del testo, tale da rendere il passaggio un’ipotesi di vaga concretizzazione.Per il resto, il documento romano è una banale dichiarazione di intenti di nessuna utilità. Una celebrazione, appunto, neanche troppo felice. Più che un’aria di matrimonio, adatta appunto a un’unione, nel municipio capitolino si respirava un’aria stantia, chiusa, se non funebre.D’altronde il Vecchio Continente appare un fortino arroccato, la cui proiezione globale, che pure presume avere, si riduce a mero velleitarismo, schiacciata com’è dalla proiezione globale, molto più concreta, degli Stati Uniti, della Russia e della Cina.Non si tratta solo di un limite strutturale, dovuto al fatto di essere una potenza economica e non militare, ché la diplomazia non ha bisogno di cannoni, ma di un deficit a livello politico, che rende la Ue incapace di avere un qualche peso sui tavoli che contano.È il risultato della consunzione di cui è preda la classe politica europea, che ha consegnato il governo dell’Unione alle Banche e alla Finanza. La politica, in Europa, è ormai orpello residuale, teatro funzionale al potere reale, quello appunto delle banche. Se non conta nulla in casa propria, come può avere un peso altrove?Il governo delle Banche ha altri e più eclatanti effetti nefasti sulla comunità europea, basti pensare alla follia dell’austerity, imposta dalla Finanza teutonica agli altri Paesi nonostante siano notori i suoi risultati più che deleteri.Si tratta di temi fin troppo noti ai lettori del nostro sito (Piccolenote), peraltro al centro della controversia che vede opposti partiti cosiddetti europeisti, quelli consegnati alle banche, e partiti cosiddetti populisti, quelli che danno voce, in maniera strumentale o meno non ha importanza in questa sede, alle istanze di quanti si sentono depauperati a livello economico e politico (leggi cessione della sovranità) dall’attuale sistema.Si tratta di una controversia a carattere religioso, dal momento che oppone partiti laici, quelli detti populisti, a quelli asserviti ai dogmi della religione della Finanza. Purtroppo i conflitti religiosi tendono ad assumere toni parossistici.Non è solo tale conflitto a squassare l’Europa. Presto essa potrebbe tornare a essere insidiata da vecchi nemici: sia la Gran Bretagna che gli Stati Uniti hanno sempre ostacolato la nascita di una vera Unione europea, considerata un pericoloso concorrente sia a livello commerciale che geopolitico.Tale avversione era svanita in tempi recenti non solo per l’ingresso della Gran Bretagna nella Ue, ma soprattutto a causa dell’avvento della globalizzazione, la quale permetteva di diluire l’area del libero commercio europeo nel mare magnum dell’impero globale, che comunque restava a trazione anglosassone.Oggi è cambiato tutto: e se i fautori della globalizzazione tentano di puntellare la Ue nella speranza di ribaltare quanto avvenuto nel mondo anglosassone (vedi nota precedente), la Gran Bretagna della May e l’America di Trump vedrebbero nella disgregazione dell’Unione nient’altro che l’eliminazione di un pericoloso concorrente.Quelle accennate sono solo alcune delle incognite che gravano sul futuro, e sulla tenuta, dell’Europa. Che non possono essere approcciate solo attraverso un eventuale ricorso alla doppia velocità.Ci vorrebbe una riflessione ulteriore, una nuova politica. Occorrerebbe tornare alla visione dei padri fondatori, che avevano immaginato per i popoli europei una unione di destini, non un’unione fondata su una moneta, l’euro, e sulla religione della quale essa è simbolo sacrale.Tempi diversi. Allora si usciva da una guerra e i politici del Vecchio Continente erano ben consci anche della necessità di porre un freno alle spinte egemoniche tedesche, annoverate tra le cause scatenanti degli ultimi conflitti consumati sul suolo europeo.La creazione di una casa comune aveva quindi anche la funzione di contenere tali spinte, trasformarle in elemento virtuoso perché poste al servizio degli altri Paesi del continente, in un rapporto basato sulla condivisione dei benefici attraverso un’efficace mutualità.Oggi invece la Ue è diventata, all’opposto, lo strumento con il quale la Germania esercita la sua egemonia sul Continente. I Paesi associati non hanno più una funzione di freno alla sua espansione continentale, sono piuttosto periferie strumentali alla stessa.Difficilmente la Germania recederà volontariamente dal ruolo acquisito. Né dal cammino intrapreso, che, come detto, porta verso un baratro. Come si è visto nel summit romano di cui all’incipit dell’articolo. Un summit funereo, appunto. Spes ultima dea.
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