Non si intravede ancora nessuna possibilità di fermare gli attacchi di Ankara sui curdi impegnati nella lotta all’Isis nel nord della Siria. Nonostante Washington, nei giorni scorsi, ci avesse provato, ad assumere il ruolo di mediatore della crisi, Ankara si è mostrata da subito irremovibile e decisa ad andare avanti, fino a che i curdi non avranno soddisfatto la richiesta turca di lasciare completamente Manbij, strappata dai combattenti delle Forze democratiche siriane (Fsd) all’Isis durante l’estate, e di ritirarsi ad Est dell’Eufrate. Gli Stati Uniti, più che mediare con successo un cessate il fuoco tra i due nemici storici, rischiano quindi di trovarsi in mezzo al fuoco incrociato dei due alleati contrapposti.La Turchia ha fatto sapere a più riprese, infatti, che non accetterà alcuna tregua con i curdi siriani del Partito dell’Unione Democratica (Pyd) e delle Unità di protezione del Popolo (Ypg), considerati da Ankara alleati dei curdi turchi del Pkk, e, di conseguenza, terroristi al pari dell’Isis. Lungi dall’accogliere la richiesta statunitense per una tregua, definita “inaccettabile” da parte turca, Ankara ha inviato nuovi carri armati, che giovedì hanno varcato il confine siriano per posizionarsi nelle zone interessate dall’operazione Scudo dell’Eufrate.Gli Stati Uniti, quindi, come ha evidenziato la stampa americana, devono ora fare ora i conti con le ambizioni regionali dei due alleati. La lotta all’Isis, infatti, si affianca sempre più agli interessi nazionali, sia da parte dei curdi, che sognano di stabilire la Rojava, il Kurdistan siriano indipendente, sui territori strappati al Califfato in Siria, sia da parte turca, che con la scusa di combattere i jihadisti a Jarablus, cerca invece di infrangere il sogno indipendentista curdo, che per Ankara rappresenta l’incubo peggiore, e creare una zona cuscinetto al confine tra Siria e Turchia per rafforzare la propria influenza in Siria e su tutta l’area mediorientale.Per approfondire: Non c’è tregua tra Turchia e curdiUn intervento turco in Siria per contenere i curdi, del resto era nell’aria, con riferimento ai successi registrati dalle milizie curde contro l’Isis durante l’estate, ottenute con il sostegno dei raid della coalizione internazionale a guida americana. Per questo, alcuni commentatori hanno visto negli scontri avvenuti a metà agosto tra i curdi dell’Ypg e l’esercito siriano ad Hassakeh, la scintilla che ha dato il via all’intervento turco. Un intervento che cambia poco sul piano militare – la Turchia ha sostenuto militarmente i ribelli anti-Assad sin dall’inizio del conflitto – ma che rappresenta piuttosto un interessante cambiamento sul piano politico. Sulla scia della ripresa delle relazioni bilaterali con la Russia e con Israele, e delle polemiche con l’amministrazione Obama sulla mancata estradizione di Fetullah Gulen, ritenuto da Ankara la mente del colpo di Stato militare sventato a luglio, da parte degli Stati Uniti, la Turchia si è sentita “sicura” di poter intervenire per “difendere” i propri interessi geostrategici. È probabile quindi, che l’intervento turco abbia avuto l’avallo di Mosca, Tel Aviv, e, forse, persino di Damasco, che ha, inaspettatamente, protestato “soltanto” con una lettera, inviata alle Nazioni Unite. Evitare che si formi un Kurdistan siriano indipendente e che la Siria venga divisa su base settaria è, infatti, nell’interesse di tutti questi attori.Questo scenario costringe gli Stati Uniti ad affrontare una spinosa mediazione tra i due alleati contrapposti. Da un lato la Turchia, partner fondamentale degli Stati Uniti nella Nato. Dall’altro i curdi, asset fondamentale degli Usa sul terreno per portare avanti la lotta all’Isis. Washington sta cercando di non perdere l’alleato curdo mettendo in campo il proprio impegno per la cessazione delle ostilità, con i ripetuti appelli alla Turchia. Contemporaneamente però, ha chiuso un occhio sull’intervento militare turco e ha chiesto ai curdi di ritirarsi ad Est dell’Eufrate. È difficile, infatti, immaginare che gli Stati Uniti possano schierarsi tout-court a difesa dei propri alleati nella lotta all’Isis. Il supporto della Turchia, come evidenzia la Cnn, è infatti “indispensabile per la politica americana in Siria”. Dal supporto ai ribelli anti-Assad, all’utilizzo della base aerea di Incirlik per lanciare i raid contro il Califfato, gli Usa hanno bisogno dell’alleato turco.Per approfondire: Una Turchia lontana fa gioire l’Ue“È probabile che gli Stati Uniti riescano a raggiungere un accordo per una tregua temporanea, ma il fatto che i curdi si ritirino ad est dell’Eufrate non è determinante, nel lungo termine, per i curdi siriani ed iracheni”, spiega Anthony H. Cordesman, direttore del programma di Studi Strategici del Centre for Strategic and International Studies (CSIS) di Washington, ed ex consulente del Dipartimento di Stato americano, intervistato da Gli Occhi della Guerra. “Un cessate il fuoco temporaneo, comunque, non rappresenta una soluzione a nessuno degli aspetti chiave del problema curdo e non aiuta a trovare soluzioni durevoli per le questioni etniche e settarie che i curdi e gli arabi devono affrontare nel ridefinire il proprio territorio, la propria governance e il proprio ruolo nei rispettivi Paesi, né risolve il futuro dei curdi in Turchia”. Per Cordesman, che fu responsabile delle valutazioni di intelligence per il Pentagono durante le guerre in Afghanistan ed in Iraq, “gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero ricordare che qualunque tregua o pace durevole passa dalla concessione ai curdi di qualcosa che si avvicini alla sovranità o al federalismo, sia in Siria, sia in Iraq, e per la ridefinizione del ruolo dei curdi turchi, che altrimenti verrà imposto con la forza”. “Nessuno nella regione”, spiega l’analista, “può concentrarsi sull’Isis ignorando quello che succederà, e in che termini, nel futuro”.Secondo l’analista l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dei due alleati contrapposti sarà quello di “fare il possibile per trovare un compromesso tra i turchi e tutte le fazioni curde in Turchia, Siria e Iraq, e per porre fine alle tensioni con il governo di Erdogan”. “Il fatto è che le ostilità non si limitano a quelle tra curdi siriani e Turchia”, continua Cordesman, “ci sono anche quelle tra curdi e arabi, che si mescolano alle tensioni settarie fra sunniti, sciiti, e alawiti, e con la lotta all’Isis, che non può essere condotta ignorando le ambizioni e i timori di ogni fazione coinvolta nel conflitto”. “Erdogan ha le sue ragioni per provare a portare i rapporti con gli Stati Uniti il più possibile a suo vantaggio, ed è per questo che continuerà ad usare la carta del golpe”, spiega Cordesman, “l’obiettivo degli Stati Uniti è di sconfiggere l’Isis e per fare questo non può scegliere un alleato piuttosto che un altro”. “Le leggi statunitensi, inoltre, non consentono di estradare Gulen sulle basi di sospetti o di impedirgli di ricorrere ai tribunali statunitensi: il risultato finale è che ci saranno nuove manovre e nuove tensioni, e gli Usa dovranno cercare di trovare un compromesso accettabile per entrambe le parti, consapevoli che avrà un’influenza limitata”.Secondo l’esperto americano se l’operazione Scudo dell’Eufrate dovesse terminare con la creazione di “una zona controllata dai ribelli arabi e il respingimento dei curdi sulla sponda orientale dell’Eufrate”, le conseguenze dell’intervento turco saranno “limitate”. “Gli Stati Uniti e il mondo dovranno convivere con questo nuovo scenario”, afferma l’analista. Uno scenario che però “non produrrà un risultato durevole con riferimento al quadro più ampio del conflitto che comprende l’intervento russo, quello iraniano, la questione curda e le fratture religiose e settarie, che dovremo affrontare, assieme alla questione della politica turca del dopo-golpe e al trattamento dei curdi in Turchia, senza contare che ciò che, però, è davvero rilevante è che si è verificato un nuovo conflitto etnico, che stabilisce un cattivo precedente per il futuro”.“La tragedia siriana è ormai un incubo dal punto di vista umanitario ed è assolutamente necessario trovare un compromesso tra le forze governative di Assad, i ribelli arabi e i curdi, ma la triste realtà”, conclude l’analista, “è che nessuno sembra veramente disposto ad accettare un compromesso condivisibile dalle altre fazioni, che hanno ognuna i propri obiettivi nel conflitto e sono, inoltre, divise al loro interno”. “Nel conflitto in Siria, che non può essere considerato separatamente da quello in Iraq”, spiega, infine, Cordesman, “nessuno sembra pronto a cedere per sfinimento”. “Al contrario, la presenza di troppi attori esterni lascia intendere”, conclude l’analista americano, “che il conflitto peggiorerà ancora, prima che possa essere raggiunto un accordo durevole per la soluzione della crisi”.
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