Medz Yeghern (“Grande Crimine”): così gli armeni si riferiscono ai tragici eventi occorsi al loro popolo tra il 1915 e il 1923, quando nelle disputate regioni di confine tra Impero Ottomano, Russia e Persia andò in scena il primo, grande genocidio del Novecento, ufficialmente riconosciuto come tale da 29 nazioni e di cui, proprio in questi giorni, si è commemorato l’inizio.”L’arresto di centinaia di armeni – dirigenti politici, leader delle comunità, intellettuali, commercianti, uomini d’affari, giornalisti, studenti, funzionari pubblici “, spiega infatti lo storico Marcello Flores nel suo fondamentale lavoro sul Medz Yeghern, “segna l’inizio, il 24 aprile 1915, del genocidio degli armeni. É proprio quella data, infatti, a essere ricordata come memoria della tragedia subita da un popolo, come simbolo di quella “morte di una nazione”, come ebbe a definirla l’ambasciatore americano a Istanbul Henry Morgenthau, che nessuno volle e seppe fermare”. Un crimine odioso fu condotto sulla pelle dell’intera nazione armena in nome della versione estremista, radicale e distruttiva dell’esasperato nazionalismo turco trasformatosi, alle soglie della Grande Guerra, nell’ideologia ufficiale di un Impero Ottomano che già percepiva, visibili, i segni del disfacimento. Sugli armeni si abbatterono le infamanti accuse di costituire un’entità nemica del popolo turco e del governo centrale di Istanbul e provvedimenti draconiani che non esclusero deportazioni in massa, massacri indiscriminati, devastazioni di villaggi, sotto la supervisione attenta del “triumvirato” che, nel corso del conflitto, gestiva le attività dell’Impero Ottomano, costituitosi a seguito della progressiva sovrapposizione tra lo Stato e il partito nazionalista Ittihad e formato dal Primo Ministro Mehmed Talat, dal Ministro della Guerra Enver Pascià e dal Ministro della Marina Cemal Pascia.Le stime più attendibili riguardanti le vittime del genocidio armeno parlano di circa 1,5 milioni di morti, molti dei quali caduti nel corso di interminabili marce della morte in cui gli armeni venivano condotti dall’Anatolia agli aridi deserti della Siria, spinti fino alla morte in località oggi tornate tristemente alla ribalta come Deir-ez-Zor. Degli avvenimenti in corso in Medio Oriente l’opinione pubblica internazionale, ai tempi della Grande Guerra, aveva una cognizione abbastanza precisa: il New York Times coprì incessantemente la cronaca dei massacri a partire dal dicembre 1915, l’ex Presidente Theodore Roosevelt lo definì il “peggior crimine del conflitto” e anche Francia, Gran Bretagna e Italia ebbero percezione dei drammatici eventi riguardanti gli armeni.A un secolo di distanza, tuttavia, la questione del riconoscimento del genocidio è ancora attuale e scottante: a intorbidire le acque ha contribuito il reiterato negazionismo con cui le autorità ufficiali della Repubblica di Turchia hanno sempre affrontato il tema del Medz Yeghern, riferendosi ad esso con la perifrasi di “eventi del 1915” al fine di limitare, nella durezza e nella continuità temporale, l’intensità di una catena di massacri che, al contrario, proseguì a lungo dopo la rovinosa sconfitta ottomana nella Grande Guerra. Flores riporta infatti che anche nel corso delle reiterate battaglie che coinvolsero la Turchia dopo l’ascesa dei nazionalisti di Kemal Ataturk, desiderosi di porre fine alla leadership della dinastia ottomana e di revisionare le condizioni punitive del trattato di pace di Sévres, gli armeni ebbero la peggio: quando il 23 settembre 1920 i turchi occuparono la città di Kars, ponendo fine all’effimera esperienza di una repubblica armena indipendente, i massacri causati dalla soldataglia dopo l’occupazione della città provocarono oltre 6.000 morti, le quali andarono ad aggiungersi ad una conta senza fine. Sebbene lo stesso Ataturk abbia a più riprese sottolineato la natura odiosa del massacro degli armeni, è indubbio il fatto che la Repubblica da lui fondata nel 1923 abbia, in ultima istanza, inglobato pienamente la forte ideologia nazionalista su cui il “triumvirato” dell’Ittihad fece leva prima della Grande Guerra, inquadrandola in una visione del mondo laicista e modernista. La Turchia moderna è di conseguenza nata legata a doppio filo con gli scheletri nell’armadio del suo passato: di fronte a questa profonda contraddizione, la scelta di un’ampia fetta della storiografia ufficiale è stata la rimozione, pratica del resto usata in diversi casi di fronte a tutti gli “sconvolgimenti e i traumi vissuti dal Paese nel corso degli ultimi cento anni”, come sottolineato dallo storico Taner Akçam.La questione del genocidio armeno assume una notevole rilevanza politica se letta in riferimento alle attuali evoluzioni della Turchia di Erdogan, che ha fatto proprio del neo-ottomanismo il fulcro della sua visione strategica e ha fortemente rafforzato il fronte favorevole all’appiattimento del dibattito interno in Turchia. Dopo il riconoscimento ufficiale del genocidio da parte del Bunderstag tedesco, Erdogan ha dichiarato che il tema del massacro degli armeni rappresenta un pretesto per denigrare la Turchia, intensificando la sua posizione radicale espressa chiaramente in una circolare interna al governo del 2007, nella quale veniva ricordato ai funzionari di utilizzare in maniera esclusiva la formula “eventi del 1915”. Il Presidente da poco trasformatosi in Sultano cavalca il revisionismo storico per consolidare la sua presa sugli strati più fortemente nazionalisti della popolazione turca: in quest’ottica, la strumentalizzazione di un dibattito già di per sé decisamente discutibile, data l’incontrovertibile mole di prove a favore dell’effettività del genocidio, assume degli strascichi penosi nel momento in cui viene asservita all’incentivazione della deriva autoritaria in atto in Turchia. Risulta al tempo stesso difficile leggere i segni di un mutato atteggiamento dietro la lettera, in ogni caso storica, con cui Erdogan ha espresso il suo cordoglio alla comunità armena di Gyumuri lo scorso 24 aprile: dopo aver cavalcato il negazionismo del genocidio, infatti, ora Erdogan potrebbe essere indotto a un’apertura volta a fornire un’utile copertura per le azioni portate avanti dall’esercito e dalle forze di sicurezza di Ankara nelle regioni curde nel Sud-Est della Turchia, facendo in modo di nascondere con la partecipazione al dolore per i massacri del passato l’effettiva realtà dei fatti odierni, che vedono una vera e propria persecuzione in atto all’interno della nazione.
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