Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda, Australia e Giappone hanno risposto affermativamente all’invito alla limitazione delle attività di Huawei nella costruzione delle moderne reti di comunicazione 5G lanciato dagli apparati di potere di Washington, allineati in maniera simmetrica sul dossier. Ora il caso scoppiato dopo l’arresto di Meng Wanzhou tocca l’Europa. E lo fa non solo in seguito al caso dell’arresto da parte delle autorità polacche di un dirigente locale di Huawei, Wang Weijing, accusato sempre di spionaggio per conto del governo di Pechino, aiutato da un ex membro dei servizi segreti di Varsavia, e prontamente licenziato dalla società ma anche per mezzo di una voce insistente che cambierebbe la geopolitica tecnologica del Vecchio Continente: la Germania è pronta a bloccare Huawei dalla partecipazione alla costruzione del suo 5G.

Principale timore di Berlino è che Huawei possa sfruttare la nuova rete mobile 5G per spiare le multinazionali tedesche rubando idee, tecnologie e infrangendo i copyright. Berlino starebbe studiando diversi modi per mettere al bando l’azienda di Shenzen dalle gare di appalto, fissando ad esempio standard di sicurezza molto alti o prevedendo joint venture dominate da aziende europee. Di fronte al richiamo dell’egemone statunitense, Berlino è dunque pronta ad allinearsi. 

Si prefigura quanto pronosticato a dicembre da Aldo Giannuli: il caso Huawei è, innanzitutto, un avvertimento degli Stati Uniti agli alleati più riluttanti a ufficializzare la “scelta di campo” a cui sono stati propensi i Paesi del “patto delle anglospie” e i nipponici, che vedono nella Cina un rivale strategico, ovvero Italia e Germania. Paesi che vivono oggigiorno relazioni assai diverse con Washington, ma sono accomunate dai “flirt” politici con la Russia e, soprattutto, con Pechino, percepita oramai come sfidante numero uno dall’amministrazione Trump e dallo Stato profondo di Washington.

Huawei e la guerra delle spie

“La Huawei”, sottolinea Giannuli, “si muove su un terreno di diretto interesse politico e militare, avendo accesso ai nodi delle comunicazioni attraverso la fornitura di parti della componentistica (per l’Italia la questione riguarda la rete Sparkle che serve la Telekom) il che ovviamente significa la possibilità di tenere sotto controllo le comunicazioni sia istituzionali che private di ben più di mezzo mondo. […] Dunque, non stupisce che essa fosse nel mirino dei servizi americani ben prima del caso di questi giorni ed è del tutto intuitivo che, attraverso la Huawei, la Cina eserciti una massiccia opera di spionaggio a livello mondiale”.

Sin qui, dunque, “gli americani non hanno torto nell’avvertire il pericolo, se non fosse che loro non sono affatto da meno sullo stesso piano: ci siamo dimenticati della faccenda di Echelon? O di quando venne fuori che la Cia spiava i cellulari di tutti i capi di governo europei, compresa la Merkel? O i cento altri casi di spionaggio di massa dei servizi Usa? Il fatto è che agli americani non dà per nulla fastidio lo spionaggio, quello che non gli sta bene è che a farlo siano altri“. E il gemellaggio tra big tech e intelligence è un’invenzione americana, come dimostra la parabola di aziende quali Amazon.

Oltre Huawei, la rivalità tecnologica si fa sfida geopolitica

Sembra essere caduta proprio a orologeria la notizia che negli Stati Uniti, come fa sapere La Stampa, “la Ftc, l’ente americano che controlla le telecomunicazioni, ha aperto una nuova inchiesta su Huawei. Il sospetto è che l’azienda possa aver rubato segreti commerciali a danno di T-Mobile e di altri gruppi statunitensi del settore”.

 Con la sfida del 5G e della guerra tecnologica si entra in un campo di portata planetaria. La tecnologia di frontiera porta con sè le basi per esercitare un’influenza di lungo termine sui flussi di informazione, sui big data e sui processi di intelligence che necessariamente ne dipenderanno. Parliamo di una partita tra titani. Stati Uniti e Cina competono in questo ring, la Russia segue a ruota puntando perlomeno a tutelare il proprio perimetro difensivo, mentre l’assenza dell’Unione Europea è a dir poco spiazzante. Mentre il Regno Unito e gli altri Paesi anglosassoni del patto Five Eyes sono tutelati dall’asse con Washington, sul lungo termine la previsione pare essere quella di un continente che per ignavia finisca per assecondare lo status quo accodandosi agli Stati Uniti senza alcuna velleità di esercitare un’azione autonoma.

Sul caso Huawei gli Usa ritornano imperiali

Il fatto che la Germania, in una fase di chiaroscuro dei rapporti transatlantici e di contenzioso con Washington, sia pronta ad accodarsi e a sbattere la porta in faccia a Huawei significa che presto il momento di una scelta analoga potrebbe toccare all’Italia. In questo contesto, Roma ha sempre giocato, finora, su un’ambigua neutralità. Che difficilmente potrebbe essere addotta nel caso in cui Washington richiamasse ai doveri della fedeltà in ambito Nato. Una situazione di “moglie statunitense e amante cinese“, di sostegno di intelligence americano e afflusso continuo di capitali Huawei nella nostra rete tecnologica, non è sostenibile.

Manca l’infrastruttura politica, in Europa, per competere nell’agone digitale, e non bastano iniziative di bandiera come la scelta francese di puntare sul motore di ricerca “autarchico” Qwant per cambiare la situazione. Gli Stati Uniti esercitano la più classica delle logiche imperiali. E nel contesto della rivalità con Pechino che si fa sempre più accesa ai clientes, in assenza di strategie autonome, non resterà altra scelta che conformarvisi.