A poco più di un anno dalla elezioni generali, la corsa per la Casa Bianca sembra vivere innumerevoli stop and go. A “distrarre” Joe Biden, il suo partito nonché i suoi avversari al Congresso, dossier molto caldi come la guerra in Ucraina all’esterno e il rischio (scongiurato) di default. Ma il giugno appena cominciato sembra scorgere il campo delle primarie repubblicane sempre più affollato: al momento, dominato dal duello tra Donald Trump e Ron DeSantis, anche se la prossima settimana sono già attesi gli annunci delle candidature, che potrebbero rivelarsi di peso, dell’ex vice presidente Mike Pence e dell’ex governatore del New Jersey, Chris Christie. Anche il governatore del North Dakota, Doug Burgum, scenderà ufficialmente in campo il 7 giugno prossimo. Nel frattempo, i Dem si comportano da acqua cheta: deferenza verso Biden o zero idee sul tavolo?
Il fermento nel Gop
A destra, il campo non solo si affolla, ma la battaglia appare sempre più al vetriolo. Se Trump era convinto, mesi fa, di poter dominare la campagna elettorale dei conservatori, adesso le sue speranze iniziano ad assottigliarsi. A gravare sulla sua figura di candidato, non solo l’incertezza e il clamore scaturiti dalla vicende giudiziarie che lo vedono protagonista, ma anche una certa stanchezza del Gop che vuole prendere le distanze dal Maga, dai riflettori e dagli eccessi. E sebbene i suoi contenuti non siano poi così diversi dall’ex presidente, DeSantis è apparso, dalle midterm in poi come il candidato più credibile a destra. A insidiare le sue chance, l’istituzionale Mike Pence, credibile ma non carismatico, ex vice di Trump ma non trumpiano ad oltranza, partigiano ma non troppo. Un uomo molto schierato sui temi cari ai Repubblicani: ad esempio, decisamente pro-life in tema di aborto, sebbene la storia non dimentica la sua presa di posizione sui fatti di Capitol Hill. Pence bollò come “sconsiderate” le parole di Trump, ribadendo che la storia lo avrebbe ritenuto responsabile. Un gesto che piacque a destra e a sinistra, e che riscontrò il favore dei Repubblicani moderati e dei dixiecrats. Ma può questo bastare per rubare la scena a Trump e DeSantis? Forse no.

Tra eccessi, scivoloni e frecciatine ai compagni di partito, la campagna elettorale sembra proseguire come un treno per DeSantis. Una campagna elettorale dai toni caldi, ove il leader repubblicano duro e puro si alterna sul palco al padre e al marito amorevole: non a caso, i luoghi della sua campagna non sono meri palchi da comizi, ma spesso salotti informali ricostruiti qui e lì per entrare in sintonia con l’elettorato; e non è certo un caso se la reclutata n.1 della sua campagna è proprio la moglie Casey, responsabile della costruzione della narrazione da buon padre di famiglia che deve trascinare al voto le famiglie di Suburbia. Occasioni preziose, nelle quali alternare il tono paternalistico del candidato agli aneddoti della consorte: “vogliamo vedere l’uomo”, è ciò che ripetono decine di americani desiderosi di incontrare l’alternativa a Trump per rivolgergli anche solo una domanda. Un’astuta campagna da “chiacchierata al caminetto”, che bypassa perfino la rete, agorà prediletta dai candidati degli ultimi vent’anni.
I dem silenti, Biden impegnato
Dopo il quasi miracolo delle elezioni di metà mandato, in molti si aspettavano un inizio di campagna elettorale col botto. E invece il presidente Biden, dal novembre scorso, pare aver avviato un lento ed estenuante periodo di avvicinamento alle elezioni da far ipotizzare qualsiasi retroscena. Un temporeggiamento che tradiva l’esigenza di non dover sottostare all’etichetta da candidato ancora per un po’, così come una certa difficoltà del Partito nel riconoscere che l’unico competitore credibile fra i suoi sia un incumbent 80enne e gaffeur di professione.
Una volta rotti gli indugi e annunciata la rielezione, Biden sembra aver costretto il Partito Democratico, obtorto collo, a credere nel suo secondo mandato. I sondaggi non sono generosi con il presidente che, almeno fra gli elettori progressisti, sembra essere preferito a facce nuove non ben precisate da almeno il 50% degli intervistati. Il partito sembra fare quadrato attorno a lui, quantomeno per proteggerlo dagli attacchi esterni, non mettendo in programma alcun dibattito per le primarie prima del prossimo autunno. Del resto, un confronto con i suoi compagni di corsa rischierebbe di tradursi una specie di farsa: dopo il presidente, ad inseguirlo, troviamo Marianne Williamson, guru del self help che annovera nel suo curriculum l’essere stata guida spirituale di sua maestà Oprah Winfrey; a seguire, Robert F. Kennedy junior, erede reietto dell’intramontabile dinastia che porta in dono ai Dem la “scomunica” da parte della propria dinastia, oltre che la sua fama da complottista e no vax ante-Covid 19.
Il fantasma del terzo partito
La presenza di un terzo partito, competitor diretto di Democratici e Repubblicano, è da sempre stato agitato come uno spauracchio ruba voti da parte dei delusi dei principali due partiti. Ipotesi terziste hanno anche riscosso dei successi discreti in passato, ma il radicamento del bipolarismo oltre al particolare impianto elettorale americano, hanno sempre impedito che una terza via giungesse alla Casa Bianca. Eppure di questa ipotesi si è tornato a parlare all’indomani delle midterm, quando una ricerca della Brooking Institution aveva appurato che il 42% degli intervistati si dichiarava disposto a scegliere un terzo partito “centrista” qualora se ne fosse presenatata l’occasione. Un esule pensiero da coltivare in privato ma che non trova una corrispondenza nella realtà dell’offerta politica americana.
Un argomento delicato, croce e delizia degli elettori americani. Se, infatti, la terza via sembra essere un sogno accarezzato da molti, bisogna ricordare che in passato questo anelito ha prodotto delle conseguenze politiche reali. Nel 2016, il 6% degli elettori scelse candidati terzi come il liberatorio Gary Johnson (3%) o la leader dei Verdi Jill Stein (1%). Cosa ha prodotto lo scostamento di quel 6%? L’innalzamento della soglia che i candidati principali hanno dovuto raggiungere per vincere negli Stati chiave della competizione elettorale: questo dettaglio è ciò che ha permesso a Trump di vincere nel 2016 ma non nel 2020. Restando più o meno simile la sua quota elettorale, nel 2020 è diminuita la fetta dell’elettorato indipendente (al 2%) che, combinatasi con un’innalzamento delle cifre di Biden, ne ha permesso la vittoria. Nella prossima competizione, infatti, entrambi i partiti hanno come obiettivo quello di ridurre al minimo la voce dei partiti indipendenti.
In questo alveo si inserisce il fenomeno NoLabels. Il gruppo si definisce un movimento di Commonsense Americans, tanto per corteggiare il defunto Thomas Paine, che ha come obiettivo quello di mettere alle strette i leader politici al fine di risolvere i grandi problemi della nazione. Un movimento nato nel 2009, che dalla sua piattaforma web arruola simpatizzanti e militanti, raccoglie fondi e agisce come gruppo di pressione. Così efficace da aver avuto un riconoscimento al Congresso, attraverso la creazione del House Problem Solvers Caucus. Un’operazione da 70 milioni di dollari che propone un ticket in bicromia (Democratico-Repubblicano): una scelta che il 59% degli intervistati, in un sondaggio commissionato dallo stesso think tank, affronterebbe qualora le alternative fossero Biden e Trump. Possibilità di successo? Prossime allo zero. Voti strappati ai principali contendenti? Tantissimi.