Sono settimane contraddittorie per l’economia statunitense, segnata di recente dal braccio di ferro tra Trump e il direttore della Fed, Jerome Powell. La produzione nel Paese corre, i disoccupati sono al minimo da mezzo secolo e anche i salari sembrano aver intrapreso una parabola ascendente; al tempo stesso, seguendo un trend globale, le borse Usa stanno rilasciando l’eccesso di capitalizzazione accumulato a partire dal 2017 e hanno ceduto fortemente negli ultimi mesi. 

Per Wall Street è stato il peggior dicembre dal 1931: un rimbalzo nella giornata del 26 dicembre, al rientro dalla pausa natalizia, che ha portato al più grande guadagno singolo in termini di punti nella storia della borsa di New York (Dow Jones +4,98% guadagnando 1.086,38 punti a 22.878,31 punti, Nasdaq +5,84% a 6.554,36 punti) ha riacceso flebili speranze di un’inversione di tendenza, subito smorzate, come sottolinea Milano Finanzada un nuovo tonfo il giorno successivo, “poichè i timori legati al rallentamento della crescita Usa e l’incertezza sulla politica economica di Washington persistono. Il Dow Jones lascia sul terreno l’1,90%, l’S&P 500 l’1,78% e il Nasdaq Compsite il 2,20%”.





Gli Stati Uniti sembrano schiacciati in una situazione paradossale. Una crescita economica superiore al 3% si accompagna a una borsa in caduta libera. A ben guardare, ciò non appare tuttavia uno scenario controintuitivo. Il combinato disposto tra lo stimolo fiscale avviato dall’amministrazione Obama, la politica di tassi bassi, per quanto gradualmente crescenti nell’ultimo triennio, adottata dalla Fed e la riforma fiscale dell’amministrazione Trump ha avviato definitivamente gli Usa fuori dall’onda lunga della Grande Recessione, senza tuttavia che l’enorme quantità di denaro messo in circolazione dallo Stato e dal sistema finanziario venisse dirottata verso un vitale programma di opere pubbliche capaci di trasformarla in capitale fisso.

Certo, le imprese assumono e la disoccupazione cala: ma al tempo stesso la principale fetta della crescita non si distribuisce sui redditi da lavoro ma su quelli da capitale, alimentando al tempo stesso una situazione di larga disponibilità di denaro per una finanza allegra come nei mesi precedenti il crac di Lehmann Brothers, che ha nuovamente riempito tutti i principali istituti di prodotti finanziari ombra, come i derivati, altamente tossici. Jerome Powell, in questo contesto, punta ad alzare i tassi per rimuovere, almeno parzialmente, parte del denaro in eccesso dal sistema finanziario. Tuttavia, la manovra produce effetti controintuitivi nel momento in cui cozza con le priorità strategiche del potere politico.

L’era della banca centrale totalmente indipendente dal potere politico è definitivamente terminata, nei fatti. Peter Navarro, consigliere per il Commercio della Casa Bianca, ha detto alla Nbc che il rialzo dei tassi della Fed è il principale tra i fattori responsabili di questa volatilità di mercato. Volatilità che si alimenta di incertezza.

E in una situazione tanto scivolosa, si potrebbe intuire come la scelta di Powell sia stata non del tutto errata pensando al rischio di una caduta in recessione del Paese nel 2020 a seguito dello scoppio di una bolla finanziaria, ma controproducente pensando alla crescita dell’economia reale: gli Usa non sono l’Europa e la Fed non è la Bce, ma il ricordo dell’effetto devastante prodotto dal rincaro inopinato del tasso di sconto deciso da Trichet nel 2011 dovrebbe insegnare sull’eventualità di togliere in maniera tranciante grande masse di liquidità dall’economia.

Un budget federale orientato a investimenti e crescita potrebbe essere la risposta e convivere in maniera armonica con le nuove politiche della Fed. Ma qua si innesta l’altro, grande tema: lo shutdown federale a seguito del mancato accordo tra repubblicani e democratici e l’arroccamento di Trump sulla costruzione del muro al confine col Messico, che il presidente vuole “whatever it takes” (a qualunque costo), aggiunge solo ulteriore incertezza.

E per il Presidente, che ha serie speranze di rielezione nel 2020, l’incertezza è deleteria. Come scritto da Paolo Mastrolilli su La Stampa,“il presidente si è sempre vantato del rialzo di Wall Street, sventolandolo come prova della correttezza delle sue scelte, e quindi ora è imbarazzato dai crolli, che mettono in discussione la stessa narrazione con cui punta alla rielezione nel 2020. L’economia per lui conta più di tutto il resto, e l’ha usata spesso come contraltare al ‘Russiagate’, chiedendosi ‘come sarebbe possibile decretare l’impeachment di una persona che sta lavorando così bene'”.

Ora gli analisti “prevedono una frenata nel 2019, ma alcuni cominciano a temere una recessione entro il 2020, che Wall Street starebbe già scontando. Una minaccia ferale per Trump, perché gli farebbe mancare il pilastro su cui conta di poggiare la rielezione”. L’economia americana è sull’ottovolante. E sulle sue tensioni interne poggia un sistema globale in pieno fermento: dal debito cinese ai derivati di Deutsche Bank, le situazioni di stress nell’economia mondiale sono molte e i campanelli d’allarme sempre più rumorosi. Lo scontro istituzionale non aiuta a rendere gli Stati Uniti il Paese capace di offrire una risposta chiara e netta al profilarsi delle nubi nere di una nuova crisi finanziaria all’orizzonte.

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