Il gas ha cambiato la geopolitica del Mediterraneo orientale. E nella guerra tra Israele e Striscia di Gaza si è aggiunto recentemente anche questo elemento che può cambiare, e non poco, la percezione del conflitto su scala regionale. Gli attacchi minacciati da Hamas nei confronti delle piattaforme israeliane del giacimento Tamar hanno mandato un messaggio chiaro: anche il gas è inserito in quella lista di obiettivi strategici dei miliziani palestinesi. Non a caso la Marina israeliana si è da tempo dotata di Iron Dome sulle proprie corvette al fine di blindare lo spazio aereo vicino alle piattaforme offshore evitando il rischio di attacchi devastanti dalla spiaggia di Gaza. Ma la minaccia missilistica sulle strutture dei giacimenti israeliani rappresenta anche il sintomo di un problema che è stato molto spesso sottovalutato nella crisi tra Israele e Gaza e che invece rischia di essere una chiave di lettura sempre più importante.

La conferma arriva dal convitato di pietra di questa escalation militare: la Turchia. Accusata di essere la vera mano dietro questo rinnovato conflitto in Terra Santa, la Turchia, con Recep Tayyip Erdogan, si è trasformata nell’unico difensore mediorientale della causa palestinese insieme agli iraniani. Un caso curioso anche dal punto di vista etnico: gli unici due Stati a sostenere in toto le azioni palestinesi non sono arabi, ma appunto turchi e iraniani. Ad ogni modo, quello che interessa in questo frangente è un articolo pubblicato dai media turchi in cui si insinua l’idea che Ankara stia riflettendo se proporre un accordo sulla spartizione delle ZEE all’Autorità palestinese sul modello dell’accordo Turchia-Libia. Un accordo disconosciuto da tutti, in particolare dalla Grecia, e che però è servito a Erdoğan per blindare la sua posizione all’interno del Mediterraneo centrale.

Ora la questione sembra ripetersi con Gaza. A sostenere la mossa è Cihat Yaycı, ex contrammiraglio della Marina turca e uno degli ideatori di Mavi Vatan insieme a Cem Gurdeniz. L’ammiraglio, ora professore e capo del Centro per le strategie marittime e globali presso l’Università Bahçeşehir, ha dichiarato al Daily Sabah che i questo accordo sarebbe particolarmente vantaggioso per entrambi e “firmando un tale accordo, il popolo palestinese otterrebbe il controllo di una zona marittima di 10.200 chilometri quadrati che spianerebbe la strada per utilizzare tutte le risorse in mare”. Yaycı ha poi aggiunto che la motivazione che muove la Turchia è quella di “prendersi cura degli oppressi”, quindi dei palestinesi.

Ma è chiaro che questa frase sveli un significato ben più pragmatico della ipotetica difesa dei deboli. La spartizione delle ZEE è un elemento essenziale della dottrina della Patria Blu e, specialmente per quanto riguarda il Levante, un accordo di questo genere sarebbe una spina nel fianco sia per Israele che per Cipro nel sogno di costruire EastMed, il gasdotto per collegare i giacimenti dello Stato ebraico all’Europa via Grecia. La minaccia turca rientra anche nel nodo del Gaza marine, il giacimento offshore a largo della Striscia di Gaza e che ancora non è sfruttato per lo scontro diplomatico su quella parte di oro blu del Levante. L’Autorità Palestinese vorrebbe sfruttarlo, ma questo implica una capacità di farlo – per ora tecnicamente impossibile tranne per accordi internazionali – e soprattutto il semaforo verde da parte di Israele.

La conferma della visione ben più pragmatica di Yaycı rispetto alla visione “neo-ottomana” paventata con la Palestina arriva proprio da un testo dello stesso contrammiraglio per il Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies in cui si parlava di un accordo per la delimitazione delle ZEE tra Israele e Turchia. Nel documento del 2020 l’ammiraglio e Zeynep Ceyhan citano proprio la possibilità che i due Paesi possano diventare vicini nel Mediterraneo attraverso un accordo sulla delimitazione delle zone economiche esclusive. Segno che quindi la Turchia si era già ampiamente interessata a un patto con Israele e che confermava la visione laica di Mavi Vatan rispetto al sostegno alle cause arabe o islamiche di cui è più affine Erdogan. Le cose in Turchia sono cambiate: gli arresti degli ex ammiraglio laici e critici verso alcune scelte di Erdogan hanno impresso una svolta a mote linee strategiche e non va dimenticato che ora esiste una malcelata volontà di Ankara di tornare ad avere rapporti positivi con l’Egitto. È chiaro che per avere rapporti positivi con le altre forze del Mediterraneo orientale, oltre a una nuova politica meno assertiva, il nodo rimane il gas: non a caso la Francia si è fatta avanti per una proposta di pace con Egitto e Giordania. Il gas del Levante fa gola ma fanno gola soprattutto i rapporti che si instaurano grazie a queste nuove fonti energetiche. L’esclusione della Turchia da questo “grande gioco” del gas levantino è stato il vero interruttore della tensione ormai pluriennale fra Ankara, Atene e Nicosia. Con Israele che sostiene il blocco filo-ellenico insieme agli Emirati. Tutto può essere deciso dal gas.