Duemila, il secolo della storia alla riscossa, della Terza guerra mondiale in frammenti e dei remake dei kolossal geopolitici del passato. Novità che sanno di passato sotto nuove e mentite spoglie. La riedizione del Grande gioco in Asia centrale, dove la competizione a due russo-britannica ha assunto la forma di un campionato mondiale all’interno del quale gareggia anche l’Italia. La ristampa della corsa all’Artico, con l’aggiunta della lenta apertura della Rotta del mare del Nord. Le nuove guerre russo-turche. Le nuove guerre per l’Indo-Pacifico, con Pechino nel ruolo di nuovo sfidante della talassocrazia delle sorelle dell’Anglosfera.

Dei tanti remake geopolitici che danno forma alla Terza guerra mondiale in frammenti, la nuova corsa all’Africa è uno dei più importanti ed anche uno dei più complessi. Perché l’Occidente e i suoi membri, invero, in questa partita stanno giocando o in difensiva o in panchina. L’Africa è dove tramonta definitivamente il Sole sul sistema europeo degli Stati, realtà sempre più appartenente al passato, e dove una nuova alba sta sorridendo a nuovi giganti.

La “fine” dell’Europa in Africa

Dei sei idiomi d’importazione che ieri furono imposti ai popoli africani, ossia francese, inglese, italiano, portoghese, spagnolo e tedesco, oggi ne sopravvivono soltanto due, cioè francese e inglese, che debbono coesistere con linguistici ritorni alle origini – lo sdoganamento dello swahili, il boom di yoruba e igbo – e con l’entrata in scena di concorrenti agguerriti, in primis cinese e turco e in secundis arabo e russo.

Non è l’Africa che ha smesso di essere centrale per l’Europa. È esattamente il contrario: è l’Europa che, messa ko dalla fine dell’eurocentrismo delle relazioni internazionali, ha smesso di essere centrale per l’Africa. Della quale continua a magnetizzare la gioventù, ma sulla quale ha cessato di esercitare influenze determinanti in sede di processo decisionale.

In Africa si continuano a combattere delle piccole guerre mondiali, per gli stessi motivi di sempre – i preziosi contenuti nel suo sottosuolo –, ma sono cambiati i volti degli attori che le protagonizzano. Non è più Londra contro Parigi come nel Biafra. E non è più Bruxelles contro Kinshasa. Come non è più Lisbona contro Maputo. Oggi è Africa contro Africa. O meglio: quel che resta dell’Africa europea contro le nuove Afriche, indipendenti o praterie di nuove potenze, che vanno sorgendo dai deserti del Sahel a Capo di Buona Speranza.

Nuove-ma-vecchie potenze avanzano

Parigi continua a dominare il panorama africano in termini di influenza militare – circa 6.000 soldati ivi dispiegati e 32 accordi di cooperazione militare all’attivo –, nonché a vantare un notevole potere di condizionamento negli affari domestici di 14 ex colonie – legate al Tesoro francese dal Franco CFA –, ma la sua strategia di gioco contempla un approccio difensivo. Che nulla può contro offensive di peso, come quelle lanciate (con successo) da Turchia, Russia e Repubblica Popolare Cinese. Triade che sta frantumando la Françafrique.

La Turchia, nell’arco del primo ventennio del Duemila, ha triplicato i numeri della sua rete diplomatica nel continente, quintuplicando l’import-export con esso e, a partire dalla seconda metà degli anni Dieci, affidando alla compagnia SADAT l’onere-onore di entrare nel ricco mercato della sicurezza e della difesa. Rivoluzione diplomatico-militare di cui la Francia ha tastato il peso in Libia, dove, messa fuori gioco l’Italia nel 2011, è rimasta in seguito impantanata nelle sabbie mobili create artificialmente da SADAT e Wagner.

La Russia ha esteso i suoi tentacoli dall’Algeria alla Repubblica Centrafricana, inglobando il Sudafrica nei BRICS e facendosi strada con dei potenti spalanave corrispondenti alla diplomazia energetica, al golpismo – dal Mali al Burkina Faso –, al potere morbido e al denaro – il vertice Russia-Africa. Avventura facilitata dalla capitalizzazione del legato anticoloniale dell’Unione Sovietica: l’homo russicus che può contare sulla fama di liberatore, contrariamente all’immagine negativa dell’homo europeus, e come tale viene accolto.

E poi c’è la silenziosa Cina, che ha inviato in Africa più di un milione di agenti economici, tra imprenditori e lavoratori, e che del continente è divenuta il primo partner commerciale bilaterale dal lontano 2009. Protagonismo sui generis, che alle luci del palcoscenico preferisce il buio del dietro le quinte, avente il duplice obiettivo di incorporare l’Africa nella ragnatela delle nuove vie della seta e di guadagnare uno sbocco sull’Atlantico. Per ipotecare il controllo della futura fabbrica di beni a basso costo del pianeta. E per sabotare il pivot to the Indo-Pacific degli Stati Uniti entrando in punta di piedi nell’Atlantico.

La situazione non è migliore per Londra, che continua a guidare la classifica degli investitori stranieri, ma i cui “giganti anglofoni”, Lagos e Accra, anelano al conseguimento di posizioni egemoniche nell’ex Africa britannica (e oltre), cioè piena emancipazione geopolitica. Brame che hanno significato grandi opportunità per Mosca e Pechino.

Tanti giganti dai piedi di creta possono fare un colosso dai piedi di acciaio? Se la risposta a suddetta domanda fosse sì, questo spiegherebbe l’insuccesso delle difensive di Londra e Parigi, nella top-ten mondiale per economia e potenza militare, contro le offensive di Mosca e Pechino, ma anche di Ankara, Riad, Abu Dhabi e Teheran. Sullo sfondo del lento ma costante avanzare di nuovi attori, come Brasilia, Tel Aviv e Nuova Delhi. E tutto ciò mentre Washington, che persevera diabolicamente nel commettere gli errori del passato, continua ad avere una “visione eurocentrica” dell’Africa che inibisce ogni suo sforzo espansivo. La guerra mondiale per l’Africa è aperta e l’Occidente parte in svantaggio.

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