La storia ama ripetersi, si sa, alternando e altalenando tra farsa e tragedia, tra commedia e dramma. Come in un eterno loop, dal quale uscire possibile non è, che costringe i figli ad ereditare colpe e conti in sospeso dei padri. Come in un eterno ritorno di déjà-vu e déjà-vecu. La storia è un passato che non passa.
La piccola e indomita terra montuosa in cui vivono i discendenti degli antichi vainachi, la Cecenia, è la prova vivente della natura ciclica di quell’adamica condanna che è la Storia. Ieri, oggi, domani e sempre investita di un solo destino: essere l’incubo della Russia, impero culturalmente alieno al quale non ha mai accettato di sottomettersi. Perché è dal remoto 1859, anno della conclusione della conquista russa del Caucaso e dell’estensione del cordone ombelicale di Mosca sino a Groznyj, che tra russi e ceceni è bellum perpetuum.
La guerra infinita tra Russia e Cecenia è divenuta e diviene affare mondiale ogniqualvolta la Russia sia impegnata, in quello stesso frangente di tempo, in competizioni egemoniche ad alta partecipazione. I ceceni rapiti dalla proclamazione di Jihad globale del Kaiser e del Sultano durante la Prima guerra mondiale e incoraggiati dalle grandi potenze a secedere dall’Unione sovietica nel dopo-Versailles. I ceceni corteggiati dal Terzo Reich e spinti alla sollevazione nel corso della Seconda guerra mondiale. E i ceceni alla ricerca di indipendenza sul finire dell’epopea sovietica, con il denaro, le armi e i soldati di organizzazioni terroristiche, potenze-guida dell’islamosfera e servizi segreti occidentali.
Oggi, sulla falsariga di ieri, è (anche) qui, nell’altamente infiammabile Cecenia, che i principali rivali di turno della Russia – Stati Uniti e Turchia – stanno seminando vento con la prospettiva di raccogliere tempesta. Tempesta, però, per il Cremlino.
Ucraina, una guerra tra ceceni
La guerra in Ucraina non è mai stata una questione tra Mosca e Kiev. Come neanche è stata ed è soltanto l’ennesima puntata della nuova Guerra fredda tra Mosca e Washington. Perché essa è la prima trincea della grande battaglia per la transizione multipolare. È un teatro della guerra civile islamica. Ed è anche un nuovo episodio delle guerre russo-turche, con la questione cecena al centro della contesa.
I combattenti provenienti da Groznyj, ripartiti tra tenaci oppositori di Ramzan Kadyrov, islamisti e reduci delle due guerre cecene, sono presenti sul campo di battaglia ucraino sin dal 2014. Ieri in armi contro i separatisti di Donetsk e Lugansk, inquadrati all’interno dei battaglioni Shaykh Mansur e Džochar Dudaev, in interazione coi tatari del gruppo Noman Çelebicihan e in odore di collaborazione con Turchia e Stato islamico. Oggi in armi contro le forze armate russe e contro la loro nemesi, i kadyroviti, forti di un tale afflusso di connazionali che ha possibilitato la formazione di due nuovi battaglioni: Obon e Khamzat Gelaev.
Ucraina, l’opportunità della vita di Kadyrov: sbarazzarsi degli unici detrattori che possono realmente metterlo in pericolo, cioè dei combattenti con alle spalle una vita al fronte e un’internazionale di attori statuali e nonstatuali. Perciò l’invio in loco, già a partire dalle prime fasi del conflitto, di oltre 10mila soldati accuratamente selezionati per dare la caccia ai seguaci dello sceicco Mansur.
Ucraina, l’opportunità della vita dei nemici di Kadyrov e di Putin: approfittare del fatto che gli occhi della metropoli sono sulla Rus’ di Kiev per accendere la più infiammabile delle sue periferie, la Cecenia, capitalizzando il malcontento popolare, dato da carovita, dittatura kadyroviana e coscrizione in sordina, e stuzzicandone i sempreverdi appetiti di ribellione, con l’aiuto di battaglioni, terroristi, influencer e 1ADAT.
L’urlo di Mansur terrorizza la Russia
In giugno, alla vigilia dell’ingresso della guerra in Ucraina nel suo quarto mese, sulle nostre colonne si invitava a prestare attenzione alla Cecenia, dove i reclutamenti coercitivi e il cresciuto costo della vita stavano stimolando la popolazione a protestare e ad inondare la rete di messaggi carichi di rabbia e insofferenza. Questi e altri segnali, tra i quali la presenza di un “Nexta ceceno” a coordinare le dimostrazioni, 1ADAT, erano stati letti come degli indizi. Indizi di un possibile interesse, da parte di “menti raffinate”, all’applicazione della logica delle periferie al centro alla Cecenia.
Quanto accaduto nel corso dell’estate, dal 21 giugno al 21 settembre, sembra aver dato ragione a quella lettura dei fatti. Perché tanti sono gli eventi successi in quel breve frangente di tempo. L’apparente avvio del processo di resurrezione della repubblica di Ichkeria, in data 11 luglio, da parte del parlamento ucraino. L’annuncio via social del battaglione Mansur della volontà di trasferire la lotta dall’Ucraina al Caucaso settentrionale, cioè insurgenza, con l’aiuto di gruppi paramilitari della regione e dei comandi ucraini e occidentali. L’autoproclamazione del neonato Obon quale ala armata dell’Ichkeria – qualora dovesse risorgere. E la comparsa sulla scena di un gruppo guerrigliero, i Figli dell’Ichkeria, che in un video pubblicato in agosto dichiarava guerra al “regime senza Dio” di Kadyrov.
Il potente eco dell’urlo dello sceicco Mansur, il cui spettro riappare a cadenza regolare per infestare i sonni del Cremlino e dei suoi fidi alleati, non è passato silente da Groznyj. Perché potrebbe essere proprio questo, il timore di una guerra in casa, il motivo del ritiro in sordina dei kadyroviti dall’Ucraina e della volontà di una pausa dalle scene, poi smentita, annunciata da Kadyrov a inizio settembre.
Le ombre dietro il risveglio ceceno
L’equilibrio fragile di quell’universo multietnico e multiculturale che è la Russia regge sullo stato di salute delle sue molteplici periferie. E la Cecenia, ventre molle del Caucaso settentrionale, è una di esse. Una delle più importanti.
Pace in Cecenia significa pace nel Caucaso settentrionale, che, a sua volta, equivale a pace in Russia. Destini intrecciati in maniera inscindibile. Non è un caso, alla luce di questa regola non scritta da cui dipendono vita e morte della Russia, che i rivali di turno abbiano storicamente tentato di penetrarne i suburbi nei suoi maggiori momenti di debolezza e vulnerabilità.
Dietro il lento risveglio dei sentimenti di emancipazione del popolo ceceno, oggi come ieri supportati da braccia armate – Mansur e soci –, potrebbero celarsi una o più potenze. E i maggiori sospetti, per ovvie ragioni, ricadono su Stati Uniti e Turchia, rispettivamente principale contendente della Russia e cavallo di Troia dei primi nello spazio postsovietico.
Gli Stati Uniti sono anche il luogo in cui a giugno si discuteva della “decolonizzazione della Russia” quale “imperativo strategico” e che a luglio sponsorizzava a Praga il Forum delle nazioni libere della Russia, evento organizzato allo scopo di dare voce ai capifila dei movimenti separatistici di varie repubbliche russe – dalla Baschiria al Tatarstan. Mentre la Turchia è una finanziatrice di radicalismi e separatismi turco-turanici sin dall’età tardo-ottomana, è attivamente presente nel grande sottobosco secessionistico che spazia dalla Ciscaucasia alla Siberia, è tra le dimore storiche di reduci delle guerre cecene e dissidenti anti-kadyroviani e ad agosto, curiosamente, Kadyrov ha cercato di aprire un canale di dialogo con la sua diplomazia e i suoi servizi segreti, il MIT.
Ingannare o aggredire?
Chiunque sia dietro al lento risveglio del Davide più temuto dal Golia russo, la Cecenia, certo è che nulla è certo. Gli Stati Uniti sono consapevoli delle conseguenze apocalittiche di un’eventuale disgregazione teleguidata dalla Federazione russa, ragion per cui è lecito supporre che l’attuale strategia di accensione delle sue periferie punti più ad una “destabilizzazione intelligente” che all’induzione di un’implosione simil-sovietica.
Destabilizzazione intelligente, ossia la conduzione di operazioni di disturbo a Groznyj e dintorni, o la minaccia (realistica) di farlo, così da distogliere l’attenzione (e le risorse) di Mosca da Kiev, costringendola ad un ricalibramento al ribasso della forza dispiegata propedeutico al rafforzamento delle barriere domestiche. Barriere che potrebbero un giorno servire a Mosca, in caso di insurrezione armata circoscritta od estesa, o forse servire a Washington, che coartando il rivale ad uno sfiancante stato di iper-vigilanza multidirezionale, derivante dalla sempreverde paura dello spettro di Mansur, lo vincerebbe per esaurimento e senza colpo ferire. Solo la storia dirà quale delle due opzioni, se insurgenza o se bluff, stia seguendo la Casa Bianca.