Lo abbiamo conosciuto, sino ad ora, come l’adulto nella stanza del governo italiano. Il professore esperto le cui parole, interventi saggi e ponderati distillati sulle diverse questioni di politica economica ma anche veri e propri avvertimenti all’esecutivo di cui è parte, destano sempre notevole interesse. Paolo Savona, a partire dall’inizio del suo mandato come Ministro per gli Affari Europei, si è sempre contraddistinto per una notevole discrezione che mai gli ha impedito di analizzare il contesto economico italiano ed internazionale con lucidità.
Nella giornata del 14 gennaio, in linea con questo principio, Savona è tornato a farsi sentire, inviando una lettera al Messaggero che prende le mosse da una recente analisi dell’Economist sul futuro dell’euro. La storia dell’euro – secondo l’autorevole settimanale – “è seminata di errori dei tecnocrati”, e Savona concorda nell’imputare gravi errori non solo alla Commissione, ma anche alle scelte della Bce nel 2011, quando Trichet alzò improvvidamente i tassi d’interesse dando il via all’ondata di speculazione che travolse l’Italia, e all’incapacità di Mario Draghi di offrire una soluzione di lungo termine alla crisi dopo il “tampone” del whatever it takes.
Secondo il professore, “le difformità tra le economie dell’ eurozona richiedono che gli shock locali vengano compensati della perdita della loro indipendenza monetaria. In linea con le regole Ue, esse devono avere più margini per uno stimolo fiscale nelle crisi. Ciò, tuttavia, per le stesse regole Ue non è possibile per i Paesi come l’Italia afflitte da decenni di debito elevato. I cittadini degli Stati indebitati non possono sopportare una stagnazione perpetua. L’eurozona dovrebbe avere una qualche politica fiscale centralizzata in funzione anticiclica che includa una spesa per investimenti finalizzata e una comune assicurazione per la disoccupazione”, ovvero una sfera sociale capace di andare oltre l’attuale assetto di potere.
Questo Savona lo ha ben chiaro e presente, tanto da averlo interiorizzato nel suo documento sul progetto di riforma delle istituzioni comunitarie, intitolato Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa. Nelle sue parole riecheggiano gli avvertimenti lanciati nelle scorse settimane dal Washington Post: continuando su questo passo, sarà impossibile salvare l’Unione Europea e l’euro da loro stessi. E salvare le economie dei “perdenti dell’euro”, come l’Italia, che hanno già avuto molto da patire in termini assoluti e relativi nei vent’anni di integrazione monetaria.
Concorde con Savona è il collega Giorgio La Malfa, predecessore dell’accademico sardo nel suo ruolo ministeriale e protagonista della fine della Prima e della Seconda Repubblica. La Malfa, che negli ultimi mesi ha prodotto numerose analisi calzanti sulla situazione economica europea, ha fatto su Startmag un bilancio del ventennio dell’euro. “A favore dell’euro vi è il suo ruolo come moneta di riserva sul piano internazionale e questo gli conferisce una certa stabilità”, sottolinea. “Ma di contro vi è l’andamento economico dell’area dell’euro in questi anni che è stato sostanzialmente insoddisfacente non soltanto in confronto alle economie asiatiche che forse viaggiano in una diversa categoria, ma anche rispetto agli Stati Uniti e anche ai paesi europei che non aderiscono all’euro. Questo è il vero tallone di Achille dell’euro”.
Per La Malfa, “la ragione di questo andamento negativo, che forse molti dei sostenitori dell’euro negheranno, è che l’Unione Monetaria Europea è dominata dalla preoccupazione degli squilibri di finanza pubblica di alcuni paesi e della possibilità che si creino questi squilibri e quindi viaggia con il freno tirato, cioè con regole di finanza pubblica che spingono verso la recessione invece che verso lo sviluppo”. Regole che i Paesi centrali, come la Germania, si permettono di interpretare a modo loro, forzando l’applicazione dei parametri di Maastricht ma, al contempo, sforando in continuazione nella bilancia commerciale. Salvo poi aprire agli investimenti solo dopo il rinfocolamento delle tensioni sociali interne.
Il punto di vista è comune, a partire dall’editoriale dell’Economist per arrivare alle analisi di Savona e La Malfa: l’azione dell’ Ue ha da tempo preso una deriva pericolosa per la sua stessa sopravvivenza. E ora che l’onda lunga del whatever it takes va esaurendosi e la Bce opta per ridurre lo stimolo fiscale, ci si accorge che a dieci anni dalla prima crisi un secondo impatto troverebbe l’Europa più fragile, instabile e divisa. Politicamente, economicamente, socialmente. Mentre all’orizzonte si intravede solo nebbia: e le elezioni europee non sembrano destinate a produrre un ricambio tale da portare all’emersione una classe dirigente capace di lanciare l’Europa all’altezza del ruolo mondiale che le spetterebbe.