Quando l’emergenza coronavirus sarà passata l’Europa e l’Occidente si accorgeranno della necessità di una svolta radicale che, in certi versi, sta già venendo messa in pratica sul campo. E a dover essere superate saranno numerose distorsioni nel modo di conduzione dell’economia, dell’approccio alla politica e del vivere sociale che erano già all’origine dela Grande Crisi iniziata nel 2007-2008 e che sono state poi volutamente ignorate.

Parliamo di modi di pensare, vivere e gestire gli affari pubblici che hanno enormemente condizionato le nostre società. La retorica della cessione di diritti sociali (sicurezza, salute, tutela del lavoro) in cambio della cosmesi dei diritti civili; la stessa ideologia della supremazia di questi diritti, a ogni costo, su ogni tipo di dovere e solidarietà (di classe, famigliare, di patria); l’individualismo consumista, che pone il benessere del singolo sopra ogni ragione di benessere collettivo e sociale: tutte queste tre fattispecie risultano notevolmente ridimensionate dalla necessità di una risposta comunitaria alla crisi sanitaria. Ma soprattutto a dover essere invertita sarà una governance politica-economica che ha delegato ai mercati finanziari la sovranità degli Stati e ridotto la capacità di azione in caso di crisi. 

Parliamo, in particolare, di due elementi. La deregolamentazione finanziaria, che paghiamo dolorosamente in queste giornate di altalena dei mercati e crisi dell’economia reale, da un lato; il mito della tecnocrazia in sostituzione della politica, capace di mediare, ascoltare, riacquisire la sua centralità, prendere anche decisioni dure, quando necessario, dall’altro. 

Lo vediamo già nella risposta emergenziale alla crisi. Le catene logistiche si bloccano, le borse si avvitano e gli Stati tornano in campo. Quello che da molti in Italia veniva ritenuto impossibile o eccessivo per risolvere crisi industriali come quella dell’Ilva diventa, d’un tratto, ragionamento d’ordine comune nel resto d’Europa. Bruno Le Maire, ministro dell’economia francese, annuncia che lo Stato è pronto a nazionalizzare alcune imprese strategiche per proteggerle. In Germania il governo di Angela Merkel annuncia una linea di credito da 550 miliardi di euro per i prestiti alle imprese. Nel Regno Unito Boris Johnson svolta all’economia “di piano” chiedendo uno sforzo industriale nazionale per la costruzione di valvole e ventilatori polmonari. In Italia dal Quirinale al Copasir aumenta la vigilanza sugli asset strategici di fronte al timore di scalate finanziarie.

Affondano le regole di Maastricht, il mito del “giudizio dei mercati” sulle politiche pubbliche, lo stesso “ordinatore occidentale”, per citare l’analista Pierluigi Fagan, che pone l’economico davanti al politico. La tecnica davanti alle idee, alla loro dialettica, la rule of law del commercio e delle transazioni sovranazionali sopra i singoli ordinamenti pubblici. Potremmo non essere di fronte a un nuovo 1929 o a un nuovo 2008, o forse non solo; sicuramente, in futuro servirà un nuovo 1945, ovvero una fase di riscrittura delle regole della governance mondiale che sappiano recepire gli sviluppi delle ultime settimane e le loro conseguenze.

Bisognerà tornare alla fase in cui prendeva spunto l’ordine seguito alla Conferenza di Bretton Woods, come scrive l’Agi sottolineando le conseguenze della ristrutturazione della governance globale dopo l’ultimo conflitto mondiale: “costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, organismi internazionali destinati a concedere prestiti, il primo a breve scadenza e a carattere monetario, il secondo a lunga scadenza e allo scopo di incrementare la produttività. Set di norme stringenti per il commercio. Gabbia contro la fluttuazione dei cambi. Soprattutto era stato stabilito che l’economia mondiale è un bene comune, e comunemente va gestita. Non a caso, dal punto di vista internazionale, si gettavano contemporaneamente le fondamenta delle Nazioni Unite. Tutto si tiene”. E regge nella sua interezza ventisette anni, fino allo strappo di Richard Nixon sul gold standard nel 1971, nella sua versione amplificata e mutata (con l’aggiunta, fondamentale, della World Trade Organization nel 1995, la fine della Guerra Fredda e l’ascesa dell Cina), fino ai giorni nostri.

Sarà necessario un ripensamento del rapporto tra governi e mercati, tra Stato ed economia, una maggiore capacità di resilienza e coordinamento contro i rischi globali. Una correzione degli eccessi della globalizzazione selvaggia, che sappia rivalutare il ruolo degli Stati e dei popoli nella gestione di attività fondamentali di carattere politico ed economico. Anche l’estremo tentativo di tenere a galla la nave dopo la Grande Recessione, ovvero il pieno sdoganamento delle relazioni commerciali tra Occidente e Cina e la grande festa collettiva del quantitative easing che ha alimentato undici anni di decollo delle borse, doveva avere fine. E la sta avendo quando un’epidemia globale ha reso ampiamente visibile a tutti la dipendenza del sistema da equilibri delicati, da catene logistiche senza sostituti credibili, da mercati finanziari umorali, da un delicato meccanismo di domanda e offerta non resiliente agli shock.

Si sente la mancanza nelle classi dirigenti (politiche, ma soprattutto economiche) di una cultura politica per la gestione dell’era globalizzata. I più abili la svilupperanno sul campo, gli altri dovranno pensare ai cambiamenti indotti dall’epidemia di coronavirus, il grande “cigno nero” che ci pone di fronte alle nostre contraddizioni. Niente sarà più come prima: e per molti versi, potrebbe essere un bene.





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