Quella sterminata distesa biogeografica rispondente al nome di Indo-Pacifico è il luogo in cui verrà decretato il fato della battaglia tra il morente momento unipolare e l’albeggiante multipolarismo, ma non è lì che i blocchi scaricheranno le maggiori tensioni: è nelle periferie.

Periferie, ovvero satelliti, sobborghi e quartieri dormitorio ai margini dei lebensraum degli imperi – quali possono essere, ad esempio, anche micro-stati, stati a riconoscimento limitato e avanzi dell’epoca coloniale –, sono loro che riempiranno le pagine dei libri di storia sui quali studieranno i posteri. Il sangue che scorrerà nelle periferie, in particolar modo lungo le Nuove vie della seta, sarà l’inchiostro di domani.

Periferie al centro delle contese tra grandi potenze; questa è la chiave di lettura che può permettere agli spettatori della Terza guerra mondiale a pezzi di decifrare una parte consistente degli eventi che stanno riscrivendo il sistema internazionale, ridistribuendo il potere dall’Occidente al resto del mondo. Questa è la chiave di lettura che priva dell’aura misterica eventi come il risveglio del secessionismo nei Dipartimenti d’oltremare francesi, la voglia di autonomia nel Commonwealth, l’approdo dell’Impero celeste a Timor Est e nelle Isole Salomone, la messa a ferro e fuoco del Kazakistan e il (ri)divenire del Nicaragua ventre molle delle Americhe.



L’importanza di chiamarsi Nicaragua

Con l’entrata della competizione tra grandi potenze nella fase delle periferie al centro, il fragile equilibrio che garantiva la stabilità del sistema internazionale si è spezzato. Oggi, causa la violazione continua e sistematica delle linee rosse tracciate con l’inchiostro simpatico, i cortili di casa degli imperi sono diventati ostaggi di bande armate che talvolta anelano ad un mero assalto anarchico, tanto violento quanto fine a se stesso, e che altre volte aspirano ad assumere il controllo dell’intera proprietà.

In questa nuova fase, fatta di bande corsare che aggrediscono poderi sguarniti, le stesse regole di ingaggio sono mutate. Perché, del resto, anche il gioco è diverso: è a somma zero; chi vince prende tutto. Chi vince determina il fato dell’età multipolare e, dunque, la traiettoria dell’umanità nel 21esimo secolo. Chi perde è condannato ad espiare in purgatorio una pena di durata indefinita. E data la storicità della posta in palio, perché qui si (dis)fa il multipolarismo o si muore, tutto è e sarà lecito per una notte.



Il Nicaragua, all’interno dei contesti della competizione tra grandi potenze e della discesa in campo delle periferie, sta giocando e giocherà un ruolo-chiave. Il ruolo di luogo del destino e Perse geopolitico: distruttore di ordini egemonici, alteratore di equilibri consolidati, catalizzatore di cambiamenti epocali.

Innatamente geostrategico, nonché votato all’antiamericanismo sin dai tempi di José Santos Zelaya López, il Nicaragua è l’incurabile tallone d’Achille degli Stati Uniti, l’eterna vena scoperta della Fortezza America, ed è per questo motivo che, insieme a Cuba e Venezuela, è il Paese sul quale la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese hanno scommesso maggiormente negli ultimi anni. È per questo motivo che è (e sarà) uno dei teatri-chiave della Terza guerra mondiale a pezzi.

Ciò che rende il Nicaragua un luogo del destino, differenziandolo dal vicinato mesoamericano, è il possesso di una predisposizione genetica di tipo geostrutturale: è nato per essere il vero crocevia tra le Americhe e l’Eurafrasia. Perché la geografia permetterebbe che qui fosse costruito un canale migliore di quello di Panama, sotto ogni punto di vista – dalla capacità alla navigabilità –, sebbene gli Stati Uniti non lo abbiano mai concesso. L’antiamericanismo codificato nel dna, invece, lo ha dapprima reso un avamposto sovietico e dipoi un pilastro di quella che Washington ha definito la Troika della tirannia ed un alfiere del revisionismo patrocinato da Vladimir Putin.



Scrivere del Nicaragua è fondamentale, in sintesi, perché non è una periferia come le altre: è la periferia. La periferia che può tutto. Che può diventare centro se mai riuscirà ad avere un proprio canale – e l’adesione alla politica dell’una sola Cina (dicembre 2021) non è che il corteggiamento di un abile adulatore. Che può sveltire od affossare la transizione multipolare – perciò non vanno escluse delle “operazioni di recupero” da parte degli Stati Uniti. E che, disturbando l’arco della pace mesoamericano e rivitalizzando la Troika della tirannia, può coartare il centro a ripiegare su se stesso.

Soldati russi in Nicaragua

Dopo il ritorno in auge dell’antico progetto del canale antiegemonico, naufragato contro lo scoglio della dottrina Monroe, al quale era seguito un periodo di pausa dalle scene, la presidenza Ortega, rinvigorita dall’esito delle urne, aveva chiuso il 2021 lanciando alcune sfide agli Stati Uniti, tra le quali l’adesione alla politica dell’una sola Cina e l’apertura di un consolato onorario in Crimea.

Il risveglio del Nicaragua, avvenuto sullo sfondo di quella che sulle nostre colonne avevamo definito la “pioggia di storia” – dall’insurrezione sinofobica nelle Salomone alle rivolte tra Martinica e Guadalupa –, era stato letto da noi come il possibile foriero di un cambio di paradigma: l’entrata a gamba tesa di Russia e Cina in Latinoamerica, ovvero “un’intrusione disturbante come risposta simmetrica alle manovre occidentali tra Artico e Indo-Pacifico” avente quale obiettivo il “portare il conflitto in casa degli Stati Uniti”.

Ai primordi del 2022, disaminando l’evoluzione della guerra fredda 2.0, avevamo ritenuto altamente possibile l’aumento della tensione nelle Americhe Latine e, più nello specifico, dell’esposizione delle due potenze revisioniste nel risorgente Nicaragua – con probabile rafforzamento della cooperazione militare russo-nicaraguense. “Una risposta”, era stato il nostro pronostico, “alle operazioni di disturbo occidentali nel lebensraum eurasiatico della Russia, in particolare in Ucraina e Kazakistan“. E sta succedendo.



Il 7 giugno è divenuto effettivo un decreto presidenziale riguardante l’autorizzazione all’ingresso nel territorio nicaraguense delle forze armate russe “per partecipare ad esercitazioni di addestramento e operazioni di aiuto umanitario, missioni di ricerca, salvataggio e recupero in situazioni emergenziali o disastri naturali”.

I soldati russi potrebbero restare a Managua a breve o a lungo, a seconda di quanta sia la voglia al Cremlino di turbare i sonni della Casa Bianca, perché il decreto presidenziale conferirà loro il diritto alla permanenza dall’1 luglio al 31 dicembre. Un gesto per certi versi storico, perché emblematizza la volontà di Mosca di sfidare Washington nel suo cortile di casa – essendo, oramai, saltata ogni linea rossa –, e per altri no, perché lo stesso decreto concede l’autorizzazione per fini umanitari a vari eserciti – incluso quello statunitense – e perché segreto di Pulcinella vuole che soldati e mercenari russi entrino ed escano a piacimento da Managua già da (molti) anni.

La risposta della presidenza Biden non si è fatta attendere: l’8 giugno, a margine del nono vertice delle Americhe, la diplomazia statunitense ha paventato l’esclusione del Nicaragua dall’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e America centrale, altresì noto come CAFTA, quale (possibile) rappresaglia. Perché il problema non è il decreto in sé, che semplicemente mette nero su bianco la realtà dei fatti – l’avvenuta satellizzazione di Managua da parte di Mosca –, quanto il messaggio che lo accompagna: se al Cremlino è negato il diritto a possedere delle sfere di influenza, la Casa Bianca dovrà prepararsi all’arrivo del conflitto nel suo cortile di casa. La dottrina Monroe alla prova del XXI secolo.

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