L’Uzbekistan, subito dopo il Kazakistan, è la nazione dell’Asia centrale più importante in termini di pivotalità geostrategica ed attrattività. Non è un caso che sia proprio qui, nella terra di Tamerlano, che stia venendo scritto uno dei paragrafi più importanti del cosiddetto Grande Gioco 2.0, ovverosia la riedizione contemporanea (e in salsa multipolare) dell’ottocentesco confronto egemonico russo-britannico.
La Russia, per la quale è indispensabile che il fu sovietico Uzbekistan non venga inglobato in sfere d’influenza altrui, alla luce del dinamismo crescente in loco da parte di Stati Uniti, Cina e Turchia, il prossimo mese potrebbe ivi tagliare un traguardo considerevole: l’aggiornamento, a lungo bramato, del partenariato strategico.
Aprile, il mese spartiacque
Il presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev dovrebbe recarsi a Mosca ad aprile per partecipare a un evento di notevole importanza. Il condizionale è d’obbligo: la visita, a lungo programmata, è già stata rimandata a causa della pandemia e manca una data precisa. Un fatto, comunque, è certo: avverrà. E, una volta nella capitale russa, Mirziyoyev dovrebbe apporre la firma su trenta documenti e accordi di cooperazione, tra i quali una dichiarazione congiunta inerente il partenariato strategico con la Russia.
Il motivo per cui l’arrivo di Mirziyoyev a Mosca è estremamente importante è che fra il Cremlino e Tashkent, almeno sino ad oggi, v’è stato più affetto che amore, più collaborazione umorale che intesa costante, ma il potenziamento critico del loro partenariato strategico – in piedi dal 2004 – a mezzo della finalizzazione di un elevato numero di accordi intergovernativi e interdipartimentali dovrebbe condurre alla fioritura di una simbiosi solida e multilivello.
È da anni che la diplomazia russa anelava all’obiettivo di aggiornare il vetusto accordo e le ragioni sono piuttosto evidenti: rinvigorire il partenariato strategico equivale a cementare la collaborazione, rendendola meno esposta a volubilità e perturbazioni, dotandola di un respiro più ampio e orientandone coattivamente l’orizzonte sul lungo periodo.
Ultimo ma non meno importante, partenariato strategico significa condivisione di mezzi nel perseguimento di fini comuni. In questo caso, lo scopo è la preservazione dell’Asia postsovietica (ma non solo) dalle interferenze occidentali e lo strumento, uno fra gli innumerevoli, sarà il fatidico ingresso nell’Unione Economica Eurasiatica – che gli Stati Uniti stanno tentando di evitare. Non è da trascurare, inoltre, che Tashkent rappresenta anche un punto di contatto “per altri mondi”, in primis quello iraniano e in secundis quello indiano, è che, alla luce di ciò, potrebbe rivelarsi il pivot di Mosca nella corsa all’oceano Indiano.
Russia e Uzbekistan oggi
L’esposizione di numeri e fatti è il modo migliore per comprendere quanto sia profondo ed esteso il legame, o meglio il partenariato strategico, fra Russia e Uzbekistan.
Mosca è il secondo partner commerciale di Tashkent – il primo è Pechino –, è casa di una diaspora (politicamente strumentalizzabile) di oltre due milioni di uzbeki, fra le due nazioni sono in vigore accordi di cooperazione in campi sensibili come armamenti, difesa e sicurezza, e salvavita è stato il ruolo quivi giocato dal Cremlino sin dai primordi della pandemia: dall’invio di aiuti umanitari alla recente conclusione dell’affare Sputnik.
L’importanza dell’Uzbekistan
L’Uzbekistan, ribattezzato “il ventre molle dell’Asia centrale” dall’oggi defunto stratega Zbigniew Brzezinski, è il “cuore del cuore della Terra mackinderiano”, ovverosia è il centro di quella regione, compresa fra Turkestan e Russia siberiana, che biogeografia e geopolitica hanno storicamente ritenuto geostrategicamente pivotale ai fini dell’egemonizzazione e della sottomissione dell’Eurasia.
Rivitalizzando l’accordo di partenariato strategico, e soprattutto proteggendolo con efficacia da tutte quelle forze esterne ed ostili che tenteranno di minarne i cardini, Mosca ipoteca presente e futuro di Tashkent e tira un sospiro di sollievo ritardando – forse a tempo indefinito – l’incubo dello scenario profetizzato da Brzezinski di un Turkestan preda di instabilità controllata, ossia eteroguidata strumentalmente da Washington allo scopo di esercitare pressioni asfissianti (e destabilizzanti) sul vicino estero russo.
Perché l’Uzbekistan, nella consapevolezza che il nuovo Grande Gioco può risultare benefico soltanto se l’osservazione è di natura partecipante, è, sì, interessato ad aprirsi ad Occidente, specialmente agli Stati Uniti, ma non sembra essere propenso a trasformare la diversificazione del portafoglio di alleati, partner e collaboratori in una forma perniciosa e autosabotatrice di acquiescenza unidirezionale.
È in questo di profondità strategica che dovrebbe essere letto il futuro approdo di Mirziyoyev a Mosca, che sta avvenendo sullo sfondo di altri eventi magniloquentemente indicativi delle ambizioni di grandeur dell’Uzbekistan: dai lavori per il corridoio indo-irano-turcico alla cooperazione avanzata con il Kazakistan, dall’adesione al panturchismo (e al turanismo) alla solerzia diplomatica in Afganistan, passando per la volontà di ospitare prossimamente una conferenza sull’interconnettività in Asia.