Auspicare che un processo di pacificazione in Siria possa rasserenare anche le ormai burrascose relazioni tra Mosca e Ankara è una speranza vana.
Il futuro di Bashar al-Assad è di certo il principale pomo della discordia tra Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan, ma non è l’unico. Rimangono altri punti critici a minacciare la tenuta dei sempre più precari equilibri russo-turchi.
Il Nagorno Karabakh è uno di questi. La situazione nell’enclave armena in territorio azero, proclamatasi indipendente nel 1992 e sostenuta politicamente e militarmente dall’Armenia, negli ultimi mesi è andata infiammandosi, e con essa anche i rapporti tra i governi di Baku e Yerevan. Negli ultimi dodici mesi, l’aumentata presenza militare azera a ridosso del territorio conteso ha suscitato i timori di un’escalation: l’Azerbaijan minaccia un’azione di forza per riprendersi la regione separatista, l’Armenia si dice pronta a prendere le armi per difendere i fratelli minacciati.
Questo crescendo di tensioni, che in gennaio il Direttore dell’Intelligence nazionale USA James Clapper ha ritenuto foriero di un vero e proprio conflitto armato, pare destinato a proseguire, anche alla luce del fatto che le forze aeree dell’Azerbaijan e della Turchia dal 7 al 25 marzo scorsi hanno svolto tutta una serie esercitazioni militari congiunte. Da Baku fonti governative hanno parlato di iniziative già previste dal programma di difesa congiunto turco-azero TurAz Qartali, partito lo scorso mese di settembre: del resto, tra le due nazioni, etnicamente e culturalmente molto vicine, vige fin dal 1992 una partnership militare, divenuta nel corso degli anni una sorta di alleanza che impegna entrambe ad una mutua assistenza nel caso di un’aggressione da parte di uno Stato terzo. Che per quanto riguarda l’Azerbaijan può arrivare solo dall’Armenia.
Recentemente poi Yerevan è stata beneficiaria di una linea di credito da 200 milioni di dollari da parte della Russia, sua alleata, per l’acquisto di modernissimi sistemi missilistici anti-carro ed anti-aereo, e di tutta una serie di armamenti di ultima generazione sfornati dall’industria bellica russa. La notizia è stata diffusa con molta cura da vari canali ufficiali ed istituzionali russi: mai sulle rive della Moscova era stata data una così ampia risonanza ad una transazione di tale peso politico-militare.
Molto probabilmente, questo cambio di atteggiamento nella comunicazione politica russa lo si può interpretare come una sorta di sfida alla Turchia, di cui si è avuto sentore già a metà febbraio, quando Mosca ha inviato diversi caccia con la stella rossa in una sua base in Armenia, lasciando presumere l’intenzione di istituire con Yerevan un sistema di difesa aereo congiunto contro Ankara.
E sarebbe la prima volta che la Russia coinvolge così esplicitamente un suo alleato in una mossa contro un membro della NATO, come a dare una risposta alla militarizzazione dei confini orientali dell’Alleanza Atlantica a seguito della crisi in Ucraina. Dove nelle ultime settimane è intanto andato aumentando il feeling tra Erdogan e il suo omologo Petro Poroshenko.
Il vertice bilaterale tenuto a Kiev ad inizio marzo si è infatti concluso con un impegno comune per metter fine all’ “occupazione russa della Crimea”, ma soprattutto per rafforzare la sicurezza nel Mar Nero ed aumentare la cooperazione anche in ambito NATO, di cui l’Ucraina evidentemente si sente già membro. Nulla di nuovo, in realtà: viste le recenti tensioni con Mosca in Siria e il dispiegamento di forze russe in Armenia, era fin troppo prevedibile che Erdogan cercasse una convergenza con Kiev in quello che, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un Asse del Mar Nero in chiave anti-russa.