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Il rapporto tra la Russia e l’Arabia Saudita è sempre stato un rapporto molto difficile. Mosca e Riad hanno intessuto nel tempo una relazione estremamente complicata dove gli interessi politici di entrambi gli Stati erano assolutamente divergenti, mentre gli interessi economici, come Paesi produttori ed esportatori di petrolio, erano stranamente convergenti. Difficile che una situazione di siffatta maniera potesse continuare per molto tempo, perché, inutile negarlo, gli interessi economici degli Stati sono sempre capaci di cambiare la diplomazia ed è altrettanto prevedibile che prendano il posto degli interessi meramente politici e culturali. A Mosca e Riad queste cose sono molto chiare a tutti. La guerra in Siria ha dimostrato, senza ombra di dubbio, che il sistema di alleanze russo di doveva infrangere con quello in cui è coinvolta l’Arabia Saudita. E non sembrano esserci dubbi su questa differenza di blocchi. Da una parte Siria, Iran, Russia e forse Turchia. Dall’altra, Arabia Saudita, monarchie del Golfo (Qatar a parte), Stati Uniti e, in disparte ma incluso nella lista, Israele.

Se tutto sembra però così nitido da far apparire anche inutile ripeterlo, non va dimenticato che sia Mosca che Riad, prima di pensare alle idee, pensano, molto più prosaicamente, al proprio tornaconto economico. E sia chiaro, non c’è una critica in questo. Ogni leader di ogni nazione pensa (o dovrebbe pensare) prima di tutto al guadagno che il proprio Paese può ricevere dalle proprie scelte politiche. La guerra in Siria è stata una guerra contro il terrorismo islamico dell’Isis, ma non va dimenticato che la Russia è intervenuta in Siria non solo per la sconfitta del Califfato ma anche per riuscire a mantenere Assad, le proprie basi in territorio siriano e costringere il mondo a guardare alla Russia come una potenza leader anche del Medio Oriente. Detto questo, Califfato sconfitto e Assad tenuto in vita grazie anche al proprio intervento, è chiaro che a Mosca non ignorano l’importanza di mantenere rapporti proficui con casa Saud.





La Russia e l’Arabia Saudita hanno infatti un interesse in comune di estrema rilevanza per le rispettive economie: riuscire a far alzare il prezzo del petrolio. Il costo attuale per barile è troppo basso e non riesce a supportare la volontà di crescita del Cremlino, che dipende anche dagli idrocarburi. L’Arabia Saudita, dall’altro lato, deve ad ogni costo far arrivare il prezzo del petrolio almeno a 100 dollari al barile, come ricordato oggi da La Stampa, per evitare di aumentare il deficit dello Stato, che si aggira intorno ai 110 miliardi di dollari. Sauditi e russi sono già da mesi impegnati nel taglio alla produzione per provare a far crescere i prezzi, ma queste misure, decise anche in sede Opec, sembrano non raggiungere gli esiti sperati.

Per far salire i prezzi del petrolio, i Paesi puntano due tre crisi internazionali. La prima è quella politica all’interno della stessa Arabia Saudita. Come spiegato sempre su La Stampa, “la stretta contro la corruzione voluta dal principe ereditario Mohammed bin Salam, anche se ha come obiettivo la modernizzazione dell’economia saudita, ha fatto salire la percezione di rischio nel più grande esportatore di petrolio al mondo”. Questo è sicuramente un segnale di come la scelta di politica interna del principe saudita possa in realtà aver avuto non solo scopo di prendersi i soldi incamerati dai suoi parenti e dignitari (si parla di centinaia di miliardi di dollari requisibili dalla monarchia) ma anche lo scopo più strategico di far “ribollire” il mercato. La seconda crisi è quella fra il Kurdistan iracheno e il governo centrale di Baghdad. La questione di pozzi di Kirkuk e degli oleodotti che tagliano la regione è di particolare importanza non solo perché sono interessati Turchia, Iran e Paesi del Golfo, ma anche perché in questo modo l’Iraq ha dovuto forzatamente interrompere l’estrazione da quei pozzi. Alla diminuzione dell’offerta, il prezzo è leggermente salito. Infine, all’interno dell’Opec, non va dimenticata la crisi venezuelana. La crisi finanziaria ha sensibilmente colpito la compagnia nazionale di Caracas, che adesso si vede costretta ad abbassare di molto l’estrazione. In questo modo, il prezzo non può che innalzarsi.

Naturalmente i problemi per il prezzo del petrolio non finiscono qui. Mosca e Riad sono concordi nel farlo aumentare, ma ci sono molti Paesi non interessati a questa crescita. In primis, ci sono i Paesi dell’America settentrionale, e cioè Canada e Stati Uniti, che anzi hanno aumentato la loro produzione andando a incidere sul mercato petrolifero e riuscendo in qualche modo a colmare, seppur non del tutto, il calo della produzione dei Paesi Opec. Ma non vanno dimenticato due Paesi molto interessanti dal punto di vista geopolitico: Iran e Libia. Teheran non ha alcun motivo di tenere alti i prezzi del petrolio, anzi, vuole cercare di sfruttare questo crollo del valore per cercare di sfondare nel mercato mondiale. La fine delle sanzioni possono essergli di aiuto anche se i problemi non mancano specialmente nella tecnologia. Il secondo Paese è la Libia, che sta innalzando la produzione nonostante la guerra e l’assoluta incertezza sul potere politico. Anche in questo caso, come per l’Iraq in guerra, l’Opec e gli altri Paesi produttori non possono chiedere a Tripoli di tagliare la produzione, essendo questa una delle pochissime fonti di sostentamento delle casse dello Stato.

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