Finanza Usa nuovamente sull’ottovolante dopo la fase problematica di fine 2018. Questa volta a lanciare l’allarme è il settore automobilistico o, meglio, il sottostante sistema finanziario che ha nel mercato dei veicoli il suo sbocco nell’economia reale.
Come riporta Dagospia, che cita Finanza Online, “lo dice un nuovo report della Federal Reserve Bank di New York, secondo cui più di 7 milioni di americani hanno raggiunto un grave livello di morosità nel pagamento delle rate della propria auto, almeno di 90 giorni”. Cosa significa in termini reali lo spiega dalle pagine del Washington Post Heather Long: un altissimo numero persone insolventi indica “solitamente un segnale di difficoltà significativa fra i cittadini americani che hanno un reddito basso e/o fanno parte della working class”. Inoltre la maggior parte dei debitori ha ottenuto il finanziamento da società specializzate nell’auto-finance, cioè i finanziamenti per l’acquisto di automobili, invece che da una banca o una cooperativa di credito: questo significa finanziamenti erogati anche in assenza di reali garanzie di ripagamento, la cui unica assicurazione è rappresentata dal bene stesso che essi contribuiscono ad acquistare, ovvero l’automobile stessa in questo caso.
La dinamica ricorda, in scala per ora ridotta, quanto successo alla vigilia della Grande Recessione, che ebbe come suo detonatore definitivo il collasso del sistema di mutui erogati al di sotto degli standard minimi di garanzia (subprime) per permettere ai cittadini statunitensi e agli istituti bancari di cavalcare il mercato inflazionato dell’edilizia nei primi Anni Duemila.
La genesi della crisi dei subprime
I mutui subprime furono erogati con eccessiva liberalità negli Stati Uniti a soggetti con una storia creditizia inesistente o rischiosa, sulla cui capacità di restituzione aleggiavano numerosi dubbi.
Le banche statunitensi arrivarono a sviluppare politiche sui mutui completamente degenerate in una fase di espansione apparentemente incontrollata del mercato immobiliare internazionale e, in particolare, americano: negli Usa tra il 2000 e il 2005 il valore delle case, in media, raddoppiò, e questo dato spinse le banche a incentivare l’accensione di mutui pari (o addirittura superiori!) al valore del bene immobile preventivato, scommettendo sul fatto che l’incremento del valore dell’immobile nel tempo avrebbe automaticamente protetto gli istituti dai rischi di insolvenza.
Tale incremento di valore degli immobili non era dovuto ad una crescita dei costi materiali di realizzazione ma era il frutto dell’euforia che aveva alimentato una bolla decisamente incontrollabile. Nel frattempo, la Fed tra il 2000 e il 2005 aveva ampliato notevolmente la base monetaria, garantendo estese disponibilità di liquidità alle banche.
Il crollo dei subprime
Il tasso di crescita dei mutui subprime ebbe un andamento simile a quello del mercato immobiliare sino al 2005, anno in cui alcuni meccanismi iniziarono ad incrinarsi, dato che il rialzo dei tassi operato dalla Fed aumentò l’onere del mutuo, drenando al tempo stesso liquidità dal mercato.
Le famiglie del segmento subprime iniziarono a subire i primi default, dato che una caratteristica penalizzante dei numerosi mutui aperti a inizio millennio era la variabilità dei tassi. Le banche riuscirono a sostenersi grazie alla continuità della bolla immobiliare. Quando però la pressione in vendita si intensificò, i prezzi delle case iniziarono a scendere: si era avviato un meccanismo tale per cui in un circolo vizioso il rialzo dei tassi accelerava i default e il crollo dei prezzi delle case. Quando la bolla scoppiò, la sindrome partita dal mercato immobiliare e dai subprime in un’area geografica relativamente ristretta si propagò nella finanza mondiale in pochissimo tempo a causa dell’incontrollabilità dello shadow banking system sviluppatosi (de facto lecitamente) negli anni precedenti.
Subprime più derivati, oggi come nei primi anni Duemila
L’evoluzione dei processi finanziari nel frattempo aveva portato le banche a detenere sempre meno quote dei finanziamenti erogati ai cittadini, riducendo le pulsioni alla conduzione di efficienti screening e monitoring e portando a una sottovalutazione dei rischi creditizi. Le banche cartolarizzavano e vendevano i crediti ad ulteriori intermediari finanziari in cambio dell’emissione dei titoli Abs (Asset Based Securities) e di prodotti come gli oramai celebri Collateralized Debt Obbligations (Cdo), negoziati come gli Abs sul mercato non regolamentato .
I Cdo non erano garantiti da asset come gli immobili ma bensì da titoli garantiti ed erano costituiti da titoli ABS con diversi livelli di rischio, direttamente legati al livello di rischio dei mutui che costituiva gli ABS stessi. La complessità del sistema era assolutamente fuori controllo: i livelli di leva finanziaria attiravano investitori nel mercato della “finanza-ombra”, ulteriormente reso complesso dai Credit Default Swap (Cds). I Cds venivano comprati dagli intermediari per coprire una quota di rischio contenuto in un Cdo o in un Abs: essi erano di fatto un surrogato delle assicurazioni , titoli derivati che avevano sulle loro spalle un’immensa montagna di prodotti tossici che, al momento dei primi fallimenti, causarono un effetto valanga impossibile da contenere su tutto il sistema finanziario. Con i risultati che conosciamo.
Questa lunga digressione è utile per capire come, troppe volte, la storia ciclicamente porti gli operatori economici e finanziari a ignorare le sue lezioni. Perché con i debiti automobilistici è successo, per ora su scala minore, ciò che sul lungo termine ha causato la crisi dei subprime.
I rischi legati ai derivati
Come i mutui di inizio secolo, anche i prestiti odierni sono stati spacchettati, assicurati e collateralizzati delle imprese finanziarie su mercati oscuri e in larga parte privi di regolamentazione, alimentando il materiale fissile della bomba atomica che minaccia l’economia globale, quella dei derivati tossici con sottostante debole o frammentato, detenuti da buona parte dei principali istituti creditizi mondiali, tra cui spicca per mole Deutsche Bank.
Come scritto in passato su Gli Occhi della Guerra, “le cause strutturali che hanno portato alla deflagrazione della crisi rischiano di sprofondare il mondo in una nuova recessione senza che gli effetti economici, politici e sociali della precedente si siano completamente riassorbiti.
Nuovamente, sul banco degli imputati tornano i derivati. Presi a simboleggiare l’intero contesto dello shadow banking system che nuovamente rischia di rappresentare il punto di partenza di una crisi di cui si intravedono già i primi sintomi. La quantità di derivati oggi in circolazione ammonterebbe, secondo le stime, all’inimmaginabile cifra di 2,2 milioni di miliardi di euro: 33 volte il valore del Pil mondiale”. E tra questi sono sprofondati anche i prestiti automobilistici che cominciano ad essere influenzati dai primi casi di morosità. Campanello d’allarme a cui gli Stati Uniti devono prestare attenzione. Ignorando l’euforia della crescita economica per concentrarsi su ciò che potrebbe, in futuro, contribuire a una nuova recessione.