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Con l’abrogazione dell’articolo 370 della Costituzione ed in particolare del 35a, che garantivano l’autonomia della regione del Jammu e Kashmir, Nuova Delhi ha di fatto annesso il territorio conteso col Pakistan nell’unione indiana. La regione del Kashmir, ai margini della catena himalayana, è divisa tra Cina, India e Pakistan sin dal 1947: con la definizione della LoC (Line of Control), la linea di demarcazione militare stabilita dopo l’ultimo grande conflitto che ha opposto Islamabad a Nuova Delhi nel 1971, le regioni del Jammu, Ladakh e la Valle del Kashmir sono rimaste sotto amministrazione indiana col nome di Jammu e Kashmir, mentre quelle di Azad Kashmir e di Gilgit Baltistan sono controllate dal Pakistan; la Cina, che rivendica solo le porzioni di Kashmir che attualmente amministra, controlla invece l’Aksai Chin e il Trans-Karakoram.

Questa suddivisione, però, non è mai stata del tutto accettata dalle parti in causa, soprattutto dall’India e dal Pakistan che rivendicano rispettivamente il totale controllo di quella macro regione conosciuta col generico nome di Kashmir. Tuttavia lo status quo post conflitto del 1971 è rimasto invariato: se escludiamo i diversi scontri a fuoco, anche di grossa entità come quello del 1999 o il recente del febbraio scorso, avvenuti al confine tra i due Stati ed i tentativi di entrambe le parti di oltrepassare la LoC creando strade e avamposti, quella linea di demarcazione militare provvisoria è sempre stata mantenuta – e difesa – da entrambe le parti.

Perché l’India ha deciso di abolire l’autonomia del Jammu e Kashmir?

Abbiamo già avuto modo di dire che la mossa di Nuova Delhi non è stata affatto improvvisa: nei piani del presidente Modi la regione del Jammu e Kashmir doveva essere formalmente annessa all’India già lo scorso febbraio. Il governo indiano aveva già deciso per l’abolizione degli articoli 370 e 35a e l’avrebbe annunciato, per fini elettorali, subito prima delle elezioni del Lok Sabha, la camera bassa del Parlamento dell’India.

Fattori esterni però, hanno spostato l’annuncio del provvedimento: dapprima l’attentato da parte di un terrorista suicida legato al gruppo Jaish-e-Mohammed che il 15 febbraio ha ucciso 40 agenti della Crpf, la polizia militare indiana, a Pulwama, nel Kashmir e successivamente l’attacco aereo indiano, hanno suggerito a Nuova Delhi di posticipare di mesi (tre o quattro secondo una fonte del governo) per evitare di esacerbare ulteriormente la tensione col Pakistan.

Da febbraio ad oggi l’India ha cercato di preparare il terreno, con visite di personaggi di spicco del Governo nella regione, ma una variabile inaspettata ha fatto precipitare la situazione. Lo scorso 22 luglio il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha incontrato il premier pakistano Imran Khan, e durante i colloqui il numero uno della Casa Bianca ha affermato che l’India sarebbe stata intenzionata ad una mediazione americana nella questione del Kashmir.

Immediatamente è arrivata la secca smentita di Nuova Delhi che ha fatto sapere di non avere nessuna intenzione di affrontare la diatriba per la regione se non sul piano esclusivamente bilaterale.

Questo mossa di Washington si inquadra nel tentativo di riportare il Pakistan nell’orbita statunitense dopo anni in cui tra le due nazioni era calato un gelo diplomatico che ha permesso ad un terzo e scomodo attore, la Cina, di inserirsi e conquistare posizioni diplomatiche importanti in quel di Islamabad. Gli Stati Uniti hanno infatti bisogno del sostegno pakistano nella trattativa con i Talebani in Afghanistan.

L’India, nonostante sia sempre stata storicamente più legata a Mosca, per contrastare l’espansionismo della Cina ha riallacciato i rapporti con gli Stati Uniti, ma il recente tentativo di ingerenza della Casa Bianca nella querelle col Pakistan è stato immediatamente troncato proprio grazie alla revoca dell’autonomia del Jammu e Kashmir e alla sua annessione all’unione indiana.

Una mossa destabilizzante

Il quadro però, si fa alquanto fosco. Il premier pakistano Khan corre seriamente il rischio di essere messo all’angolo dai militari se non reagirà in modo forte e determinato alla mossa indiana, che viene vista come una violazione del cessate il fuoco del 1971 e soprattutto un tentativo di “indianizzare” la regione: l’abrogazione dell’articolo 35a, infatti, permetterà che i territori del Jammu e Kashmir, a maggioranza musulmana, possano venire acquisiti da stranieri, quindi possibilmente colonizzati dagli indiani.

Si potrebbe perfino arrivare ad un colpo di Stato e alla sostituzione di Khan con qualche generale che, probabilmente, non esiterebbe ad usare la forza per ristabilire l’autonomia della regione controllata dall’India. Una possibilità che però resta, al momento, remota proprio per il bisogno di Washington di un mediatore come Imran Khan nella trattativa coi Talebani, ma pur sempre uno scenario da non sottovalutare.

Se davvero si giungesse ad un coup militare e ad un attacco a quello che ora è diventato ufficialmente territorio indiano, si alzerebbe lo spettro di un possibile conflitto atomico qualora ci si trovasse davanti ad uno squilibrio delle forze convenzionali in campo.

Per capire perché un’ipotesi simile, se pur poco probabile, vada comunque annoverata come possibile, occorre guardare alle caratteristiche degli arsenali atomici di India e Pakistan e soprattutto alla loro dottrina di impiego.

Un fragile equilibrio del terrore

Partiamo da una premessa: India e Pakistan differiscono di molto nell’organizzazione e nella dotazione delle proprie Forze Armate ed in caso di una guerra convenzionale – come quella del 1971 – la schiacciante superiorità dei mezzi dell’India, numericamente e qualitativamente superiori, permetterebbe a Nuova Delhi di avere ragione di Islamabad nel giro di poche settimane, se non di giorni. È proprio per questo che il Pakistan ha intrapreso la via dell’atomo.

L’India, dal canto suo, per contrastare la sempre maggiore influenza cinese in tutto il continente asiatico e nell’Oceano Indiano, ha promosso e ottenuto un efficace strumento di deterrenza nucleare che si basa principalmente su missili balistici a raggio medio e intermedio e su Slbm lanciati da sottomarini nucleari. Di rimando il Pakistan, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, ha sviluppato la propria “triade” atomica che ora può rivaleggiare con quella indiana.

Si stima che l’India sia in possesso di un numero di testate nucleari compreso tra le 130 e 140, mentre il Pakistan dovrebbe contarne tra le 110 e le 130. Entrambi i Paesi, come già accennato, dispongono di diversi sistemi in grado di utilizzare armamento atomico: missili a raggio medio e intermedio, missili balistici lanciabili da sottomarini e missili da crociera.

Quello che risulta più interessante, però, ai fini della nostra analisi, è capire la dottrina di impiego degli arsenali atomici.

India e Pakistan differiscono notevolmente, stante lo sbilanciamento nel rapporto di forze, nella dottrina di impiego. L’India non prevede di usare il proprio arsenale per un first strike nucleare adeguandosi al concetto della “deterrenza minima credibile” ritenuto sufficiente per scongiurare un primo attacco atomico avversario: sostanzialmente Nuova Delhi non impiegherebbe il suo armamento atomico se non in risposta ad un primo utilizzo da parte di un avversario. Questa filosofia deriva direttamente sia dalla considerazione che l’arsenale indiano nasce per fungere da deterrente rispetto a quello cinese, sia dal fatto che le Forze Armate indiane sono numericamente consistenti e qualitativamente avanzate rispetto a quelle pakistane.

Il Pakistan, di contro, non prevede questo tipo particolare di dottrina. Anzi, proprio in quanto si tratta di un arsenale nato e rivolto a scongiurare la minaccia di una sconfitta in una guerra con l’India, Islamabad si riserva il diritto di utilizzare le armi atomiche, soprattutto quelle a basso potenziale, contro le soverchianti forze avversarie, memore dell’esito della guerra del 1971.

Si capisce bene, quindi, la pericolosità intrinseca della dottrina del Pakistan, che impiegando l’arsenale atomico a livello tattico, magari proprio grazie alla possibilità data ai comandanti sul campo di ordinare un primo attacco contro le teste di ponte indiane, scatenerebbe la risposta atomica indiana in un’escalation difficilmente frenabile: il passaggio da uno scambio nucleare sul campo di battaglia a uno indirizzato verso le basi, gli impianti industriali e quindi le città, è molto breve.

Esiste poi, anche qualora non vengano usati i missili nucleari, un altro pericolo, se vogliamo più subdolo. Il proliferare di missili a medio e corto raggio dual use – atomico e convenzionale – pone, chi sta subendo l’attacco, davanti ad un dilemma di non facile soluzione: stante l’impossibilità di sapere se un missile in arrivo monti una testata nucleare o convenzionale, come reagire? Si capiscono bene i rischi derivanti da una risposta convenzionale ad un attacco atomico, o quelli di una risposta atomica ad un attacco convenzionale. Un dilemma di non facile soluzione, un dilemma che potrebbe avere conseguenza catastrofiche.

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