Oleg Matveychev ne è certo: gli Usa dovranno restituire l’Alaska alla Russia dopo la fine della guerra con l’Ucraina in riparazione per le sanzioni comminate dal 24 febbraio in avanti. Deputato alla Duma per Russia Unita, 52 anni, spesso definito un vero e proprio “spin doctor” di Vladimir Putin, in nome del quale, nelle scorse settimane Maveychev ha esposto alla Tv di Stato che alla fine della cosiddetta “operazione militare speciale” gli Usa dovranno restituire a Mosca tutte le proprietà ottenute dalla Russia, dai beni congelati per le sanzioni a quelli ceduti dalla Russia zarista o dall’Unione Sovietica.

Matveychev non è nuovo a operazioni mediatiche di questo tipo. A lungo tra i commentatori e i blogger più popolari nel mondo putiniano, nel 2010 ha destato scalpore la sua dichiarazione circa la necessità di “radunare l’intera opposizione russa in una piazza e chiamare i carri armati per travolgerla” così da creare una “Tienanmen russa” dopo la quale “avremmo una crescita del Pil del 10% per venti o trent’anni”. Ora il suo focus è sul revanscismo dell’orgoglio nazionalista russo, indirizzato verso la rivendicazione dei territori ex russi. In sovrannumero allo Stato più grande e settentrionale degli Usa, Matveychev non manca di aggiungere una rivendicazione russa sull’Antartide (“L’abbiamo scoperta noi, e quindi è nostra”), ma è la dinamica di rivendicazione sull’Alaska che desta interesse.

In primo luogo perché si assiste a una palese riscrittura della storia. L’Alaska non fu conquistata militarmente dagli Usa scacciandovi i russi ma venduta al termine di un accordo concluso tra l’Impero degli Zar e gli Usa appena usciti dalla guerra di secessione nel 1867. Il 30 marzo 1867 l’ambasciatore russo Eduard de Stoeckl e il segretario di Stato degli Stati Uniti, William Seward, firmarono il documento che sancì il passaggio di proprietà dell’Alaska per 7 milioni e 200mila dollari dell’epoca, approssimativamente 121 milioni di dollari attuali. L’Alaska fu dunque venduta da San Pietroburgo per l’equivalente di 4 dollari per chilometro quadrato. In Russia, ha scritto Emanuel Pietrobon, “l’evento fu celebrato come un successo diplomatico che avrebbe procurato enormi benefici: il denaro statunitense avrebbe migliorato il bilancio pubblico, il Cremlino avrebbe potuto dedicare più risorse (umane ed economiche) alle campagne espansionistiche in Europa ed Asia e, inoltre, si era liberato di un territorio, l’Alaska, ritenuto tanto sterile quanto privo di risorse naturali. Infine, vi era l’aspettativa (malriposta) che un simile gesto avrebbe portato alla nascita di un’amicizia duratura, magari in chiave anti-britannica”. Si era ai tempi del “Grande Gioco” tra la Russia e l’Impero britannico, e Londra era vista come la minaccia numero uno alla corte zarista. La Russia, che era sbarcata in Alaska ottant’anni prima, non poteva mantenere un possedimento tanto lontano, ma non riuscì nemmeno a godere minimamente delle rendite delle immense risorse naturali che gli Usa vi scoprirono.

In secondo luogo, mistificando la storia le dichiarazioni del deputato-ultrà di Putin manda però un messaggio chiaro che può esser letto come il vero sottotesto: la Russia è pronta a un braccio di ferro nell’Artico. “Le tensioni sono cresciute nella regione per anni, mentre le nazioni rivendicano le rotte di navigazione e le riserve energetiche che si stanno aprendo come risultato del cambiamento climatico”, nota il New York Times. L’Artico, specie al confine tra Siberia orientale, Alaska, Isole Curili e Isole Aleutine, è il punto geografico in cui Russia e Usa sono più vicine. In particolare, nel punto minimo la distanza tra i paesi è quella che separa le isolette di Piccola Diomede (americana) e Grande Diomede (russa), ovvero solo quattro chilometri. In quest’ottica, complice questa spesso sottovalutata vicinanza “con lo spostamento dell’ordine geopolitico dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la competizione per la sovranità e le risorse nell’Artico potrebbe intensificarsi”.

Infine, v’è da sottolineare l’esigenza per la Russia di compattare la propaganda interna. Per quanto spesso discutibili e apparentemente intempestive, le dichiarazioni di Matveychev rispondono sempre a precise esigenze di propaganda rivolta al fronte interno russo. Una nazione sotto assedio economico, sanzionata, in difficoltà sul campo in Ucraina non può non utilizzare l’idea dell’espansionismo, atavico sogno della Russia dagli Zar ad oggi, come risposta al tentativo di contenimento dei suoi nemici. E parlare di Alaska e, a complemento, di Antartide, significa a suo modo trasmettere il messaggio della natura mondiale della potenza russa. Una necessità per il regime di Putin e il suo compattamento interno. Quasi per autoconvincersi che le lancette della storia non abbiano, per Mosca, segnato da tempo un destino ben diverso. Come il pantano ucraino di queste settimane conferma.

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